sabato 11 agosto 2012

mito e glottologia x Anna

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sabato, 11 agosto 2012
il mito x Anna
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il mito
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il Mito
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Grosseto
aprilis 2006/2009
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APPUNTI SUL MITO
Considerazioni finali

di Gennaro Di lacovo

« …juvat integros accedere fontis
atque haurire,
iuvatque novos decerpere flores
insignemque meo capiti
petere inde coronam,
unde prius nulli velarint tempera Musae »

Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, w. 927-930

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x Anna Maria

Qualunque cosa un esperto oggi dica sull’epica o sul mito è stata detta prima.
Questo afferma Chester G. Starr (C. G. Starr, Le origini della civiltà greca, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964, pagg. 139 segg.). La cosa che maggiormente interessa in merito a questi materiali (l’epica ha assunto la sua struttura definitiva all’inizio dell’VIII secolo) è, in primo luogo, ve¬dere se possiamo ’situarli in un ambiente specifico e usarli come fonti storielle. I punti principali della mia opinione — dice C. Starr — sono che l’epica e il mito omerico non possano con sicurezza essere usati per ricreare un quadro specifico di eventi per una qualunque epoca, sia essa micenea che altra. Essi tuttavia gettano una luce uniforme sulle caratteristiche principali del panorama greco. Come la ceramica del Geometrico Maturo (800-750 a.C.), l’Iliade rappresenta un culmine di evoluzione locale attraverso il Medio Evo ellenico (1150-750 a.C.).
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Anna con Argo sul Monte Amiata …
Genn scatta la poto …

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Questo materiale non è databile con pre-cisione.
Né una solida tradizione esterna, né chiari riferimenti interni sùggenseoììo una data per l’Iliade. Il suo autore, Ome¬ro, è tanto impersonale quanto lo è il crea¬tore di un vaso del Dipylon (Dipylon: la porta principale di Atene, a duplice entra¬ta. Nei suoi pressi era la più importante necropoli della città. I vasi di stile geo¬metrico ivi ritrovati portano appunto il nome di “vasi del Dipylon” — Dizionario Enciclopedico Treccani, s.v. “Dipylon”). Per i vasi possiamo determinare il luogo e l’ordine cronologico della fabbricazione. L’Iliade sta da sola, se escludiamo l’Odis¬sea; gli studiosi l’hanno posta con argo¬menti persuasivi in un punto qualsiasi tra il XII e il VI sec. a.C. Mentre alcuni piccoli pezzi furono aggiunti più tardi, il poema fu scritto abbastanza presto per prevenire serie distorsioni.
La tradizione epica cessò inoltre di essere realmente produttiva alla metà del VII secolo.
La situazione riguardo al mito è perfino peg¬giore. Il nocciolo della mitologia greca era ben fissato nell’VIII secolo. I rife¬rimenti ad alcuni dei suoi racconti nel¬l’Iliade mostrano che essi erano già ben conosciuti, e i vasi del Tardo Geome¬trico (750-700 a.C) e la lavorazione in me¬tallo cominciarono ad attingere al reper¬torio mitologico alla fine del secolo.
La creazione dei miti era un’arte sem-plice, più diffusa della complessa tecnica epica, che era affidata ad aedi specializ-zati; e così la creazione dei miti durò molto più a lungo. Praticamente tutti i nuclei dei miti greci soggiacquero a ra-zionalizzazione e sistematizzazione nel VII e VI secolo. La mitologia era un mo¬do per riflettere la vita. I miti serviranno anche come espressione delle tensioni e dei problemi della fallibilità umana, come spiegazione dei fenomeni naturali (e in-naturali), come commemorazione dei gran¬di eventi, come cristallizazione delle idee religiose.
La mitologia greca vera sempre in pro-’ ;”-e^[V^Vcre-2Ìoric, finché non divennero dominanti i tipi più astratti di pensiero o la creazione del mito non si dilungò dal campo di azione della nostra mente. L’epica e il mito in realtà non sono fa¬cilmente databili.
Né erano destinati ad essere “storia”, anche se i Greci poste¬riori li consideravano come realmente veritieri.
Ogni interprelazione dell’Iliade deve tener presente anche le esigenze artisti-che dell’intreccio e le convinzioni lette¬rarie della tecnica epica, perché questi fat¬tori influivano seriamente sulla tratta¬zione delle relazioni sociali e delle isti¬tuzioni politiche, senza parlare dello stes¬so corso della guerra troiana. Tuttavia, anche se lo storico non può aspettarsi di districare eventi speciali da passi epici, l’epica e il mito furono egualmente fog¬giati da esseri umani e il prodotto riflette punti di vista contemporanei sul rapporto fondamentale tra l’uomo e il suo atteg-giamento verso il mondo fisico e le forze divine.

Per quel che riguarda i punti più importanti non vi è alcuna testimonianza di brusche rotture nell’antico pensiero greco. Poiché il Medio Evo fu un’epoca di lenta alterazione, possiamo inferirne che la testimonianza dell’epica e del mito sia generalmente applicabile all’intero priodo.
La ceramica del Geometrico Maturo fu la più alta espressione di uno spirito che era altrettanto comune alle fasi anteriori. Eppure per certi aspetti l’epica sembra basarsi più specificamente sull’VIII se¬colo. Starr ritiene implicita in questa opi¬nione la sua idea che l’Iliade assunse la forma in cui noi l’abbiamo, proprio pri¬ma della metà di questo secolo (800-751 a.C.). Il racconto dell’era di Achille fu composto come un’unità da un grande poeta, il quale trasfuse nei suoi versi il suo estro ed il suo impulso drammatico. Quest’autore dev’essere vissuto molto probabilmente sulla costa dell’Asia Mi¬nore, e deve essere posto circa due gene¬razioni prima del poeta dell’Odissea, che apparirà in un ambiente dalle caratte¬ristiche diverse.

Insommma Omero non era più libero di inventare assolutamente dal nulla di quanto non lo fossero i ceramisti geo¬metrici di Atene, e la storia che egli pose nella sua forma finale richiese indubbia¬mente un lungo tempo per la sua crea¬zione. Ma né per l’Iliade né per l’Odis¬sea possiamo sperare di sezionare livelli di sviluppo della storia e delle caratte¬rizzazioni solo sulla oi;Je djvuìtkaonianze interne, anche se logicamente possiamo supporre che tale sviluppo fu alla base della loro attuale forma. Quei difetti di composizione e le incongruenze di cui gli studiosi moderni si servono per deter¬minare successivi strati sono scoperte del tutto soggettive, se non a volte frutto di eccessiva sottigliezza moderna. Studi com¬parativi delle tecniche epiche greche e di altre più moderne gettano una certa luce sul probabile modo di evoluzione dello stile omerico orale; ma è comprensibile con altrettanta chiarezza l’uso nell’epica di formule fisse e le forme metriche esa¬minando i rigidi princìpi di composizione dei vasi geometrici. Che un uomo potesse prendere motivi ereditati e raggrupparli improvvisamente in un capolavoro era stato già dimostrato nella grande anfora CC 200 (anfora del Dipylon).
Dettagliate argomentazioni per sostenere la data proposta (800-751) possono es¬sere dedotte da paralleli archeologici, da riferimenti topografici e dal livello dello sviluppo sociale e politico nell’epica. Ad ogni modo, le basi più conferenti sono le strette relazioni nello stile e nel modo di vedere tra la ceramica del Geometrico Maturo e l’Iliade. I princìpi di composi¬zione di questa “ordinata struttura di versi multiformi” si accordano nel modo migliore con le: tecniche dei ceramisti del Geometrico Maturo tanto nella elabora¬zione dell’esametro e nella costruzione delle scene, quanto nella struttura fon¬damentale dell’intero poema.
Alla base sia dell’arte che della lette¬ratura si trova lo stesso spirito: un’abi¬lità a creare opere possenti, una spinta a fare ciò ed una fiducia sostanziale nella vita. Questo spirito, come si può sentire, è un riflesso dell’inizio dell’VIII secolo, quando l’antica struttura della civiltà greca veniva avviata, ma era ancora salda, come sicuro sostegno per l’attività crea¬tiva; quando le classi dirigenti della Grecia erano disposte e persino brama¬vano di aiutare artisti e poeti a riunire in opere poderose le eredità ancestrali.
Il poema dell’Iliade non poteva evitare di riflettere il carattere del suo ambiente, eppure ogni singola parte dei suoi ma¬teriali poteva avere avuto un’origine molto anteriore. Nollo stabilire il ritmo del cambiamento durante il Medio Evo, lo storico deve prendere le mosse dalla documentazione materiale, molto più si¬curamente databile, e può usare gli ac¬cenni dell’epica e del mito solo in quanto si adattano alla solida struttura già di-sponibile. Il partire in primo, luogo da Omero o il chiamare gli antichi secoli greci “età omerica” significa restringere troppo la nostra visuale. L’Iliade inoltre fu creata in un’età relativamente impre-cisabile, in cui il passato, il presente e il futuro non erano rigidamente separati. Distinzioni culturali tra “greco” e “non greco” erano ancora in via di creazione; all’interno le divisioni politiche erano an¬cora amorfe. Omero non riflette decisa¬mente le caratteristiche di una qualun¬que area specifica o di una qualsiasi espressione locale della cultura greca. Se la sua opera può essere meglio parago¬nata con la ceramica attica, questo non significa che egli fosse un ateniese o che la sua tradizione epica derivasse in primo luogo dall’Attica.
Inoltre Omero si era reso conto che era avvenuto un cam¬biamento, ma nel suo intento di creare una storia generica innestò nella sua ope- chiloco e dei ceramisti dei vasi a figure ra una vena arcaica. Ogni asserzione che nere possono già essere esistiti, sebbene l’epica e il mito riflettano in primo luogo ancora senza un loro portavoce, nell’età lo spirito dell’inizio dell’VIII secolo e poi di Omero. L’epica era incapace di imma-
più generalmente il sistema di vita del ginare gli uomini fisicamente come un
Medio Evo deve fare i conti con gli sforzi tutto intero, mosso dall’interno. Questa è
molto frequenti che mirano ad assegnare una caratteristica dell’VIII secolo. Una
a questo materiale origini micenee .o analisi dettagliata del vocabolario di Ome-
orientali. In merito al primo problema; ,ro e dei suoi modi di dire ha dimostrato
non si sa fino a che punto il mito greco » che per il poeta l’essere umano era un
derivasse da fonti micenee. Sforzi entu- insieme di parti, come è rappresentato
siastici sono stati fatti per scoprire le nelle figurazioni del Dipylon. Nell’Iliade
rappresentazioni di Europa sul toro e l’uomo esiste solo per agire. Nell’Odissea
altre figure mitiche su sigilli, gioielli e compare una forza interna e una consi-
vasi micenei, ma studiosi più cauti hanno derazione volutamente attenta del proprio
incontrato poche difficoltà nel negare agire.
tutte le identificazioni proposte. Benché Tra le due opere si trova la fase ini-
sia possibile che gli uomini nell’età mi- ziale della rivoluzione nella civiltà greca.
cenea abbiano avuto dei miti, essi ora L’Iliade è per noi la più importante pietra
non possono essere identificati. miliare nello sviluppo del Medio Evo che
Quando gli uomini giunsero a conside- precorre quella rivoluzione. ,
rare gli dèi più definitivamente in forme Tuttavia, benché gli eroi dell’Iliade de¬
simili alle proprie, raggiunsero una mag- rivissero la forza da un impulso divino,
giore consapevolezza della loro propria essi erano caratteri dotati di libertà di
natura. La riflessione profonda e conscia volere, sostanzialmente razionali, riflessi-
sugli aspetti essenziali dell’umanità e sul vi ed avveduti. Pur soggetti a schemi
suo posto nel mondo, uno dei segni ca- ferrei di una comunità, manifestano at-
ratteristici della cultura greca, fu una teggiamenti individuali, mostrando cosi
conquista dell’età della rivoluzione. I suoi una tipica caratteristica greca, emersa
primi stadi avevano avuto luogo all’inizio dalla civiltà arcaica e trasmessa nella
dell’VIII secolo. Ci sono a testimonianza classicità ellenica più tarda. Gli uomini
i vasi del Dipylon e i ritratti di Omero, dell’inizio dell’VIII secolo non erano con¬
ia cui “conoscenza delle passioni del- sciamente orgogliosi delle proprie con-
l’umanità” doveva rendere il suo lavoro quiste: tale egocentrismo intervenne nel
un duraturo manuale di vita umana e periodo seguente.
Le conquiste psicologiche degli ultimi scente ricchezza delle tombe dei nobili,
cinquant’anni ci hanno portato a vedere l’emergere della ceramica del Dipylon,
più chiaramente che il ritratto omerico l’adozione dell’alfabeto, il culto degli eroi, dell’umanità era ancora limitato per molti l’aumento dell’uso di figurine e altari — aspetti importanti.
Questa limitazione era tutti elementi databili —, indicano che
in parte il risultato della stilizzazione di la cultura greca si muoveva verso una
una tecnica epica, orale, che forzò i poeti, nuova fase.
come anche i ceramisti del Dipylon, a Sulla solida base di queste indica-
lavorare entro uno sfondo di schemi ac- zioni si può sperare di datare l’Iliade, il
cettati e di semplici composizioni. Solo momento in cui il mito si fissò e il
così l’ordine poteva essere portato nel pantheon olimpico si cristallizzò, nella
caos della vita. Omero, inoltre, non si stessa epoca.
sforzò di essere Dante e di abbracciare Le cause di questo “cambiamento”
tutta la conoscenza e il pensiero della dell’VIII sec. non sono chiare. Lo stor-
sua epoca. Molto evidentemente intere dimento causato dalla rovina micenea,
fasi dell’attività umana non potevano l’isolamento conseguente non furono
entrare nella storia epica della guerra, estranei alla nascita dei tempi nuovi. Ere-
Gli aspetti delta vita che furono espressi ditando una massa di elementi più antichi -
nell’opera del VII secolo di Esiodo, le generazioni che vissero nell’Egeo
dal 1100 al 750, li fusero in una conce-zione coerente e in una struttura sociale che al tempo dell’Iliade deve essere chia¬mata “Greca”. Chester G. Starr precisa le sue teorie sull’epica e sul mito alla luce, soprattutto, delle scoperte e dei ri¬trovamenti archeologici. A lui interes¬sano “mito” ed “epica” in quanto feno¬meni storicamente accettabili, non tanto nella loro veste di momenti esistenziali sempre presenti ed operanti nell’animo umano.
Il mito quale momento poetico crea¬tivo dell’uomo, fissato in racconti, è il corrispettivo, nella tradizione orale e letteraria, di quel che era ed è tutt’ora, nella vita pratica quotidiana, quel “pas¬sato” che non è passato in quanto è atemporale, eterno presente, attualizzato nei prototipi della coscienza mnemonica, vivo ed operante nell’azione momentanea. Il passato che non è morto e che vive in situazioni particolari.
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Annarg …
























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Ciò che importa, del passato, è ciò che si dimentica. Si ricorda il sedimento e la storia. Ciò che è destinato a soprav¬vivere sopravvive apparentemente in se¬greto, in realtà nel modo più evidente e palese, poiché sopravvive come materia esistente di chi ha sperimentato il pas¬sato: come presente vivente, non come memoria di passato morto.
Dioniso era il dio del dolore, poiché è dolorosa la perdita del passato quando il passato non è ricordato in quanto è ri¬masto presente. Il dio della perdita. La meccanica e superficiale interpretazione dello schema di morte e rinascita intra¬visto nelle testimonianze della religiosità dionisiaca può essere modificata in questo senso: così come nell’iniziazione primor-diale, l’esperienza di morte e di rinascita è innanzitutto cambiamento, passaggio da uno stato ad un altro.

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La morte che prelude la rinascita è l’abbandono del passato, il quale cessa di essere tale e non è ricordato perché è divenuto pre¬sente: la parte del passato che non si ricorda, che non è passato. La rinascita è, appunto, l’esperienza di quel presente che comprende in sé tutto ciò che del passato era vivo ed è vivo: tutto ciò che non si ricorda.
“Wirf dein Schweres in die Tiefe!…”‘ “Getta il tuo peso nel profondo! Uomo! Dimentica! Uomo dimentica!
Se vuoi volare,
se vuoi essere di casa nelle altezze,
Ecco il mare, gettati nel mare!
Divina è l’arte del dimenticare!”.
Così Friedrich Nietzsche. (Ditirambi di Dioniso e poesie postume — 1882-1888 •—, Adelphi, Milano 1977, pag. 169-70).
Questo accennato è solo uno schema temporale della dinamica interna all’espe-rienza religiosa dionisiaca. Qual è il con-tenuto di questa esperienza? È proprio
10 schema temporale, il passaggio, la perdita del passato in quanto divenuto presente.
Giustamente si è riconosciuto in Dioniso il dio del dolore. Ciò che rende
bifronte ai nostri occhi il volto di Dioniso è il dolore implicito nella rinascita:
11 dolore che è -fatale nell’accesso alla
gioia.
In una camera di bronzo, davanti al laccio silenzioso dello strangolatore, abbiamo avuto speranza; nel fiume dei piaceri, paura.
Qualcuno griderà che amore è spesso dolore? Senza crudeltà non c’è festa e anche la pena ha in sé molto di festivo.
A questo punto si sovrappone allo sche-ma temporale lo schema metafisico.
Se il passato è il “fin qui noi siamo” pro-nunciato dagli uomini, e il presente è “il resto è cosa degli dèi”, quando nell’espe-rienza dionisiaca il passato è dimenticato, dunque è divenuto presente, l’uomo ac¬cede a ” il resto è cosa degli dèi “, speri-mentando, nella separazione dal ” fin qui siamo noi”, la perdita dell’umano, della sua dimensione.
.L’esperienza erotica dell’orgia è, appunto, il più crudo e doloroso pre¬sente assoluto.
I simboli sessuali dell’ico¬nografia preistorica sono, d’altronde, ga¬ranzia di vita non tanto come garanzie del perdurare della specie, quanto come emblemi, simboli efficaci dell’assoluto presente.
L’orgia è innanzitutto attualità, simultaneità, presente.
E la tradizionale sentenza latina “post coitum animai tri¬ste” va intesa non tanto nel sens.o di rim¬pianto o di percezione di colpa, quanto nel senso di confermata perdita del pas¬sato. Potrebbe trattarsi anche di senso di colpa, se il passato perduto è innocenza primordiale (il “Verginità, verginità ti perdo ” di Saffo).
Il dionisismo appare inattuale ideologicamente. L’esperienza re¬ligiosa dionisiaca è stata dimenticata, e dunque è divenuta materia vivente nei sin¬goli presenti.
Il dionisismo originario era ” ciò che del passato si dimentica “. Presente vivente.
Il ” dionisismo ” di Nietzsche era inat-tuale, non era che presente nutrito del passato — il presente in cui non si può riconoscere il passato, poiché è divenuto presente.
Nietzsche era convinto di “ricordare il passato”.
In realtà — e Jeanmarie lo di-mostra (H. Jeanmarie, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, trad. it. di G. Glasser, Einaudi, Torino 1972) — né lo ricordava, né avrebbe potuto ricordarlo.
E soffrì le pene di chi ha perduto il passato.
Le soffrì, senza saperne riconoscere la causa, appunto perché il passato credeva di “ri-cordarlo”, anche se ebbe in proposito più d’una repentina illumuiazione. Nel paragrafo 224 di “Aldilà del bene e del male”, scrisse: “I nostri istinti ripercor¬rono tutte le vie del passato, noi stessi siamo una specie di chaos: — ma, infine, come già dicemmo, lo “spirito” sa tro-varci il suo vantaggio”.
Si direbbe che “ripercorrere tutte le vie del passato” sia il contrario dell’aver “perduto il passato”. Ma se si guarda più a fondo, appare molto più probabile che il “ripercorrere tutte le vie del pas¬sato” da parte dei “nostri istinti”, signi¬fichi l’aver “dimenticato” il passato, poi¬ché ciò che del passato è vivo, è il pre¬sente. Ma non senza dolore ci si stacca dal passato per possedere solo il presente, non senza dolore si rinasce — non senza morire (F. lesi, Materiali mitologici, Ei¬naudi, 1979, Torino, pagg. 121 segg.).
In quanto “tradizione letteraria”, il mito, il materiale mitologico, è scoria, dunque. È il “ricordato”. Un relitto del passato. Ma il mito, la “mitopeia”, in quanto creazione di ” prototipi “,* di “fi-gure” che la mitologia dell’anima di cia-scun individuo crea (e che sono costituite
*C.G. Jung ha battezzato queste figure determinanti « archetipi ».
Kerényi, oltre a chia¬marle « prototipi », che ha un significato non simile ma affine, le definisce anche « imma¬gini » o « figure ».
L’archetipo di Jung non è mai visibile, in sé, bensì solo suscettibile di ipòstasi, risultato della sua funzione formativa; l’« archetipo » di Kerényi può in sé e per sé essere, visione aa Ogni uomo ea e n suo segreto, che ogni uomo coltiva nei propri pensie¬ri segreti e contempla senza mediazioni, creandolo, se è un veggente. La malizia di Hermes, intrinseca nell’esercizio dei pensieri segreti, fa si che l’archetipo sia creato dall’uomo — non: si appalesi all’uomo o nell’uomo — ogni volta che l’uomo entra in rapporto di consapevo¬le contemplazione con il suo « essere fuso » col mondo, dunque — in una sorta di corto circuito mitogenetico —, si sente afferrato perché si afferra.
(…) La distanza fra « archetipo » (Jung) e « prototipo » (Kerényi) è quella che inter¬corre fra due diverse valutazoni di ciò che avrebbero potuto incontrare i « meditabondi pellegrini » se si fossero spinti « in agro », nei passaggi del sogno: immagini, per Jung; ma¬schere, per Kerényi.
Il « prototipo » (Urbild) di Kerényi è un’immagine (Bild) che non ap¬partiene al territorio del sogno e che non deriva dall’essere afferrato e modellato deV.’i’.o-rfio-fal miro; ma il « prototipo » si collega al territorio del sogno,.perche-nèh* pt’uioìiìsu » assume forma la coscienza dell’« essere fusi » (Verwobenheit) con tutto il mondo sensi¬bile: un « essere fusi » che, nel sogno, è concretato dalla maschera, volto rigido come — pa¬radossalmente — una rigida copertura di perenni fluttuazioni metamorfiche su ogni lo. In quella che per Kerényi è la maschera, fluttuazioni d’immagini irrigidita per eccesso, Jung riconobbe gnosticamente un repertorio d’immagini nelle quali l’uomo sperimenta il suo « essere gettato » (Geworfenheit) nel mondo anziché il suo « essere fuso » con il mon¬do.
Al « manichesimo » (Martin Buber) di Jung e alla sua tendenza ad analizzare per vici¬nanza e veggenza gnostico i materiali mitologici, Kerényi contrappone il suo umanesimo di « iniziato ai misteri di Hermes », meditabondo pellegrino che indaga tanto più acuta¬mente, quanto più avverte la distanza che lo separa dall’oggetto d’indagine e la povertà di veggenza che gl’impedisce di superare quella distanza.
Hermes è « la guida delle anime »: per un mitologo che, come Kerényi, sia convinto di poter ricorrere alla scienza della mito¬logia come una scienza che trae valore — di arte d’autoritratto — dal rapporto con le fi¬gure mitologiche istituito dal suo riflettere su sé stessa, essere iniziato ai misteri di Her¬mes significa essere, oggi, iniziato a non avere una « guida delle anime » e ad addentrarsi tuttavia, di là dalle immagini, nei territori della morte e del sogno. Kerényi, dopo un pe¬riodo giovanile di profonda partecipazione al cattolicesimo, fu sempre estremamente re¬ticente sulla propria religione o religiosità personale.

Di questo suo atteggiamento si può dire soltanto che fu una dedizione al segreto, ma ad un segreto visibile, ad una maschera ermetica e maliziosa di afferrato-afferratore, di facitore-contemplatore di archetipi, di là dalla quale non vi sono archetipi invisibili, ma un’apertura umanistica all’ignoto esisten¬dole. Non a un inconscio collettivo di elementi formativi invisibili, ma all’ignoto privo di ogni interferenza con il conosciuto: all’ignoto della vita per il nascituro e della morte per chi dovrà morire: « Prima di nascere non sapevamo nulla della vita, eppure essa è stata bella: per lo stesso motivo anche la morte non deve farci paura: essa non ci deluderà » /citazione da Tagore, fatta da K. in un colloquio) {dalla Introduzione di F. Jesi, sta in Mi¬ti e misteri, di K. Kerényi, pagg. 7-19) da elementi formativi, la cui efficacia può sempre constatarsi nelle manifesta¬zioni dell’anima, sia nei suoi sogni e visioni, sia nelle sue creazioni artistiche o nel suo modo di modellare la sua vita individuale), è un’attività incessante del-l’anima umana di ogni individuo, capace di rinnovare il gesto più ripetuto, strap-parlo al passato, dimenticarlo e compier¬lo, come se fosse una prima volta, ma già “conosciuta”. È questa gestualità, questo sentire intuitivo eppure abituale che ci permette di compiere un’azione, sia pure già accaduta milioni di volte, di assistere ad un evento, sia pure già accaduto milioni di volte, come se fosse la prima ed “ultima” volta. Ed è chiaro che tutti noi quando sappiamo agire mo¬mentaneamente, senza che l’ansia del fu¬turo e l’angoscia del passato riescano a bloccarci e paralizzarci, agiamo “mitica¬mente”. Anche se nulla sappiamo del “mito” come è inteso letterariamente, perché ognuno ha la sua dimensione mi¬tica, il “suo mito”. Il suo spazio fuori dal tempo.
Per l’uomo che nulla sa, per l’uomo quando nulla sa né ricorda con dolore e non intende agire per un fine prestabilito e preciso, se non per uno già compreso naturalmente nell’assenza stessa della sua azione, che questo la con¬taminerebbe in qualche modo e ne di¬struggerebbe l’attualità, agire è “agire miticamente”. Ossia, l’agire miticamente è l’agire in sé e per sé. L’agire in cui la memoria ed il passato si fondono nel presente e non rappresentano un dolo¬roso fardello.
Tutto ciò che è “futuro” nasce dall’atto, dall’agire stesso, ed è già in qual¬che modo conosciuto, non previsto in ogni particolare, e non da angoscia, non da oppressione, poiché tutto sarà come “deve” essere.

Per l’antico Greco la conoscenza del mito quale vicenda scritta, giustificava per la propria coscienza un’azione — qua-lunque essa fosse — a favore e contro chiunque, poiché non è fattibile il bene senza il male, poiché non c’è gioia senza dolore. Bene e male, gioia e dolore sono le conseguenze d’ogni azione. E qualsiasi . azione, ne da in eguale misura. Il vivere “miticamente” dava forse al Greco quel senso di “certezza”, quella purezza, quel¬la ingenuità, che era malvagità senza ver¬gogna per sé stessa, che era — Apollo e Dioniso — sapienza e dolore.

Eppure non bastò a vincere l’ansia, ”angoscia, il sapere fissato in formule mitiche.
Il mito, divenuto letteratura e fossilizzato “fuori” dal Greco, perse la sua funzione. Fu necessario “divinare” e profetizzare.
Questo era come un proiet¬tare nel futuro, oscuramente ed enigma¬ticamente, situazioni passate e presenti. “In chi è convinto che l’avvenire sia prevedibile normalmente si illanguidisce l’impulso all’azione: in Grecia troviamo invece paradossalmente coesistente una cecità completa, nella sfera politica, ri¬spetto alle conseguenze dell’azione, o ad¬dirittura con un furore senza freni nel-l’affrontare imprese disperate, contro le predizioni del dio. Eppure la nostra perplessità può essere superata, quando si consideri che questa grandiosa impor¬tanza del fenomeno della divinazione non si accompagna per forza a una visione generale del dominio unico e assoluto della necessità nel mondo.
Il concetto di destino, potentissimo presso i Greci, tolse loro tanto poco il gusto dell’azione, che un impulso forsennato di autodistrutti-vita rese la storia greca brevissima in confronto alle immense forze latenti in questo popolo.” (G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1978, pag. 45).
In questo brano Colli pare non consi-derare il fatto che l’uomo ama soprat-tutto la serenità e la tranquillità, ma si sente spesso attratto verso l’imprevedi¬bile, il caos che spezza il ripetersi mec¬canico degli eventi esistenziali. O piuttò¬sto pare, lui così amante della grecita, dispiaciuto della sua breve vita storica.
Ma il tempo, cos’è il tempo? , fu solo un “volo d’Jcaro”, dunque, quello dei Greci?
O non fu; quel loro breve volo, quanto più volentieri ricordiamo, per la sua drammatica intensità e con¬vivenza di purezza e malvagità?
Chi vuole troppo chiarire, precisare, co-noscere, non finisce poi con l’agire il più avventatamente possibile, anche con¬tro la sua stessa volontà e la sua stessa ragione di esistere?
Firenze ascoltava il suo profeta, molti “secoli” dopo. E lo bruciò.
E lo stesso profeta, non aveva forse l’atteggiamento di chi troppo vuole e subito?
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Ma a proposito di Apollo e della divi-nazione sarà fatta qualche considerazione in seguito, riprendendo alcune osserva¬zioni sopra Giroiamo Savonaroia.

“Invece il mito è la comunicazione di¬retta del pensatore, di fronte alla quale tutto il resto diventa una tortuosa divagazione.
I Greci ci presentano molte favole serie, ci narrano la storia degli dèi e del mondo: Esiodo e Parmenide, Pin-daro e Piatone, Eschilo ed Eraclito ci raccontano come sono veramente le cose intorno a noi, viste da un occhio più penetrante. Le immagini della loro fan¬tasia ci mostrano la filigrana della realtà” (G. Colli, Scritti su Nietzsche, Adelphi,. Milano 1980, pag. 121).
In questo modo il mito è l’Alibi, l’Al-trove ove tutto è accaduto e che tutto autorizza ad accadere. Il fatto — l’evento — accaduto, una volta per tutte, spogliato del sentimento, che è “tempo”, deresponsabilizza l’individuo conciliando l’indivi-duale con l’universale, l’intuizione con la ragione, il passato che muore nel dolore e rinasce nella gioia presente, l’in¬tuizione e l’ebbrezza (Dioniso) con l’in-telligenza della contemplazione razionale e fuori dal tempo, immersa nella logica, che è in quanto sarebbe comunque: è futuro e non è nel tempo giacché è so¬gno, mantica, profezia (Apollo).
E tuttavia questo punto in cui la Memoria e la Storia (che non è l’azione, ma l’atto; non il fare, ma il fatto, il finito, il “compiuto”) si fondono con la Vita (l’agire indistinto e non necessaria-mente finalizzato) e l’azione (che è il determinato agire nel Tempo e nello Spazio) non riescono ad annullare del tutto l’ansia (paura del possibile incon-trollabile, del futuro quale ci dannegge-rebbe) e l’angoscia (il dolore della per-dita di qualcosa di sé, che è dimenticato, morto, ed è presente che sempre fugge) che ritornano dopo l’atto del _supera-meìito degli opposti antitetici (DioiiLov Apollo = Passato-Futuro = Dolore-Gioia), perché si ripeta di nuovo la cosa, perché il processo è un procedere senza inizio e senza fine, è la coincidenza degli op¬posti, diversi, ma non avversi. Affini, “uguali ma non simili”.
La consapevolezza dell’inutilità, della ripetitività del processo, lo rendono mo-notono e privo d’interesse. E questo è il “taedium vitae”. Ed anche questo, co¬me tutto, è già “previsto”, perché è già accaduto.
Nella Nascita della Tragedia, Nietzsche chiamò conoscenza, verità, la sconvolgen-te intuizione dionisiaca della radice or-renda della nostra esistenza (G. Colli, op. cit. — scritti su N. — pag. 106).
La coscienza di questo dolore fatale — la notte in cui il passato sparisce quando diviene presente — può essere intesa come conseguenza dell’allontanarsi degli dèi: come, nelle parole di Hegel, il “pe¬riodo della coscienza infelice”.
In Schopenhauer e il Romanticismo, Pietro F. Quarta (Alla Bottega, Anno XII, N. 3, Maggio-Giugno 1974, pagg. 8 segg.) mette in luce la stretta relazione tra la ideologia del filosofo e il movimento romàntico: ferma restando la difficoltà di ridurre questo movimento spirituale * nei termini perentori di una definizione unica, valida tanto comprensivamente quanto estensivamente, il Romanticismo rivela come suoi caratteri costitutivi due tendenze fondamentali, una negativa e l’altra positiva, le quali, naturalmente, confluiscono in un’unica Weltanshauung.

In termini di negazione, il Romantici-smo si oppone al razionalismo illumini-stico e all’intellettualismo astratto, inca-,pace d’intendere la vita singola, che viene, invece, ripensata attraverso le con-traddizioni della esistenza e la tensione verso poli opposti. È ovvio che il Ro-manticismo non intende distruggere la Cagione o l’intelletto, ma ne nega le soluzioni chiuse e statiche.
In termini di affermazione, il Roman–ticismo sostiene la prevalenza dell’intui-zione immediata sulla riflessione, la su-periorità del sentimento sulla ragione, la riconduzione del senso della vita a un principio cosmico, per cui ne deriva una visione drammatica dell’esistenza umana, ripensata in termini di nostalgia e d’iro¬nia.
Il Romanticismo sente in sé e intorno a sé il mistero, la ,realtà sensibile si presenta come aspetto Esterno di un’altra più essenziale realtà, che gli sfugge: non può avere mete precise a cui tendere e soffre per questo suo perpetuo ricercare qualcosa che lo appaghi. In questa con¬tinua tensione verso una meta, il ro-mantico vagheggia il diverso, il lontano nel tempo e nello spazio, sede di una per¬fetta felicità che il vicino non può dare: ma la consapevolezza della impossibilità del sogno a cui si abbandona, genera la costituzionale scontentezza che è propria della sensibilità romantica, la Sehnsucht, la nostalgia, l’abbandonarsi al sogno sa¬pendo di sognare. Nasce così il mito del dolore, considerato non solo come in-sopprimibile, ma come consustanziale alla natura umana; la consapevolezza della propria infelicità è ciò che distin¬gue l’uomo dai bruti; rinunziare al dolore significa rinunziare alla propria dignità di uomo.
Dalla scoperta del fascino dello strano, dell’esotico, del diverso, alla « tempestosa leggiadria dell’orrore », come diceva la Shelley, non c’è che un passo; e del resto uomini che concepiscono la vita come un dramma non possono non vedere il dramma anche nelle cose che li circon¬dano; le brutture, le sofferenze, le ma¬lattie sono gli aspetti visibili del dolc¬iore che è nel fondo delle cose: scoperto il brutto, lo si ama, con il senso dolo¬roso del « cupio dissolvi ».
Tutti questi caratteri sono presenti in Shopenhauer assieme alla carica emotiva che contraddistingue l’anima romantica: la coscienza dell’antinomicità della vita. Questa carica si esprime in lui nel dis¬sidio fra pensiero e impulso, fra esigenze razionali e tendenze estetiche, fra sen¬sualità, irritabilità, tristezza e l’esigenza del loro superamento nell’ascetismo e nella noluntas. Il dissidio si manifesta anche nel contrasto fra individuo e specie, fra istinto e coscienza, fra temporale e eterno, fra mondo fenomenico e mondo noumenico.
Come i romantici, Schopenhauer avverte la situazione antinomica dell’uomo, l’oscil¬lare tormentoso tra la piattezza della vita quotidiana e la rarefatta atmosfera di una visione ideale e la confusione dell’una e dell’altra in una equivoca Wel-tanshauung, delinea tutte le esperienze e le alternative personali capaci di supe¬rarla, pervenendo, sul piano della rifles¬sione filosafica, alle estreme conseguenze.
Dalla vita come rappresentazione passa alla vita come arte, come pietà, al motivo del superamento della volontà individuale, fino alle ultime “cataboliche” conclusioni.
Rimane, anche dopo l’estrema soluzione, la problematicità della soluzione; e non perché essa stessa è problematica, ma perché è la vita umana di tutti gli uomini a rivelarsi incapace di accettare, una volta per sempre, la soluzione del problema. Non basta avere scoperto che l’essenza del noumeno è la volontà; non basta aver rivelato la via che conduce alla riduzione della volontà individuale alla volontà cosmica; l’umanità rimane ancorata ai due termini del problema e prospettarne le soluzioni non significa ottenerne l’acccttazione. In tal modo, nel romantico Scliopemiauer, l’assoluto e il relativo rimangono come termini di una opposizione continuamente rinnovantesi da uomo a uomo, da generazione a generazione. « Nella molteplicità delle forme di assoluto determinate da Schopenhauer riaffiorano tutti i motivi antitetici e il Romanticismo si rivela nel groviglio delle sue contraddizioni insuperate. Di antino-mia in antinomia si è giunti a quella della volontà con sé stessa e dell’essere con il nulla. L’esigenza dell’autocoscienza si è sollevata fino ad un concetto così radicale di libertà, da vederne l’ideale nell’autonegazione del mondo » (citato da: U. Spirito, La vita come arte, Firenze 1948, pag. 246).
Il romanticismo, dunque, ha riportato in primo piano la nebbia dell’esistenza umana, di contro alle illuminate certezze del razionalismo settecentesco.
L’antitesi fra notte e giorno, dice Furio lesi (op. cit. pagg. 129 segg.), che Hòl-derlin evocò quale perenne alternanza nell’elegia “Pane e vino” (Brot und Wein) può coincidere (invertendo i termini con-sueti delle sue interpretazioni) con l’al-ternanza passato-presente, là dove la notte è il passato divenuto presente e il giorno è il presente in cui si è dimen-ticato il passato (appunto perché dive¬nuto presente).
Affermare che ” passato ” nel dionisismo originario coincida con la materia stessa del divenire, e che “presente” sia nome dell’attimo in cui il divenire sembra ar¬restarsi poiché ricondotto al suo para¬digma (o al suo primo motore) nel volto del dio, significa ritornare alla coincidenza eraclitea degli opposti Hades-Dioniso, e dunque prolungare la sequenza del pas¬sato-presente in invisibile-esibito.
Giustamente Louis Gernet neiìsFSHesQi? servazioni sul libro di Jeanmarie fece notare che una caratteristica fondamen¬tale dell’opera consiste nell’attirare l’at¬tenzione suH”‘inafferrabilità” della per¬sonalità di Dioniso e sulla scarsa origi¬nalità degli elementi culturali e mitolo¬gici che vi si riconnettono.
Dioniso non può essere individuato ricorrendo essenzialmente alle componenti specifiche dei suoi culti e dei suoi miti, della maggior parte dei quali appare ere¬de, se non usurpatùre: la sua autentica originalità, la verità più profonda della sua personalità, tra le più forti e fasci-natrici del pantheon ellenico, risiede ed è con chiusa nella sua stessa presenza.
A differenza di quasi tutti gli dèi greci, egii non rivela la sua fisionomia nelle attività religiose cui presiede o nelle tra-dizioni mistiche di cui è protagonista: esse si sono raggruppate intorno a lui quasi come sovrapposizioni a posteriori, a causa di alcuni aspetti — e non sem¬pre fondamentali — dell’universo proprio che egli impone con la sua sola presenza. Dioniso è, dunque, esibizione di una real¬tà, il cui essere profondo è contraddi¬stinto dalla tonalità passato-morte-invisi¬bile.
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Grosseto
aprilis 2006/2009
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Dioniso è il paradosso divino del ricordare ciò che si dimentica, del pre¬sente in cui il passato “sopravvive appunto perché ha cessato di essere. Jeanmarie precida che Dioniso non è il “dio della morte”, ma con la sua sola presenza evoca la morte e l’aldilà. Nel sottolineare questa tesi di Jeanmarie, Gernet toccò un punto fondamentale dell’essenza di Dio¬niso, configurando il dio entro il contesto del pensiero di Piatone come il probabile Altro, l’opposto al mondo delle idee. Ciò arricchisce e perfeziona il concetto di dio inafferrabile, trasformandolo in quello di dio dell’antitesi nel quadro del fenomeno che Gottfried Benn disse “il Nulla che urge alla forma”. Dioniso è “l’esibizione del nulla”: il passato che dura entro il presente nell’istante in cui cessa di essere.
L’allontanarsi del passato, che cade nel nulla quando dura nel presente, è la notte seguita all’allontanarsi degli dèi? Se la risposta — come ritiene F. lesi (op. cit. pagg. 130 segg.) — deve essere affermativa, la conseguenza dell’allonta¬narsi degli dèi — la notte della “coscien¬za infelice” — coincide non solo con il dolore fatale nella frattura tra passato e presente, ma con la necessità di morire prima di rinascere. L’antico presuppo¬sto delle esperienze inizìatiche divie¬ne norma fondamentale dell’esperienza umana dell’essere, quando dinanzi agli uomini si collocano non gli dèi identifi-cabili in base alle loro prerogative e ai loro miti, ma gli dèi — come Dioniso — “inafferrabili”: gli dèi che sono esclusi-vamente “il divino”, che non sono suscet¬tibili di attributi rivelatori, ma che con la loro presenza evocano la realtà di un universo.
È importante notare a questo punto che il dio greco più suscettibile, oltre a Dio¬niso, d’essere identificato come “il dio” per eccellenza, di là da ogni attributo e da ogni prerogativa culturale e mitica, è Apollo.
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Gli stessi temi della sua mitologia sono proposizioni delle grandi costanti dell’es-
sere nel riflesso della sua presenza.

Non a caso, quindi, coloro che negli ultimi duecento anni hanno sperimentato i do-lori della “coscienza infelice” si sono tro-vati dinanzi così spesso l’antitesi Dioni-so-Apollo. Non si pensi soltanto a Nietz-sche, ma a Creuzer, a K. O. Miiller, a Bachofen. Si direbbe, infatti, che il dram¬ma insito nei rapporti con il passato -, “sacro”, il dramma del dover dimenticare per sapere veramente, abbia assunto le forme di una contesa tra Dioniso e Apollo, appunto perché essi — come “divinità per eccellenza” e non singoli aspetti del divino — potevano identificarsi meglio di ogni altro dio con gli dèi “assenti”. Così furono riconosciute in essi le due fasi di “perdita” e di “recupero”, che condizionavano le relazioni con il passato “sacro” e che, prese isolatamente l’una dall’altra, non potevano condurre alla pienezza. Apollo e Dioniso sono inscindi-bili. La loro separazione porta alla “co¬scienza infelice”.
L’insistenza sul carattere tragico e do-loroso dell’esperienza dionisiaca nasce allora non soltanto da una tonalità pri¬mordiale della presenza del dio, bensì soprattutto dall’impossibilità di isolare l’universo che egli impone da quello che impone Apollo, e dunque dalla fatalità d’un contrasto insanabile. Coloro che vi-vevano nella notte della “coscienza infe-lice” non si sono limitati a volgersi verso i miti antichi come a fonte di rivelazione, ma hanno creato una nuova mitologia: hanno evocato nuove immagini di divi¬nità nell’istante stesso^ in cui percepivano dolorosamente ~ Js^a^Stóg^m’e .deJT^allon-tanarsi degli dèi. I nomi di Apollo e Dio¬niso quali compaiono negli scritti di Frie¬drich Shlegel, dei romantici di Heidelberg, di Bachofen o di Nietzsche, designano due nuove divinità che corrispondono alle due fasi del doloroso dimenticare-sapere nei confronti del passato; e quei nomi sono fatalmente i nomi delle due divinità antiche in cui il divino subiva meno limi¬tazioni attributive: Apollo e Dioniso, gli “dèi per eccellenza”, i prototipi — in quanto tali — degli dèi che si sono al-lontanati.
Ciò non vuoi dire, naturalmente, che l’antitesi Apollo-Dipniso non abbia alcun significato originario nella storia della re¬ligione greca; ma nell’ambito greco sa¬rebbe probabilmente più esatto parlare di una differenza anziché di una antitesi. Apollo fu profondamente diverso da Dio¬niso. Basti pensare da un lato ai vincoli
strettissimi fra la religione di Apollo e la politica; dall’altro all’assoluta estra¬neità di Dioniso verso la sfera politica; ma i due universi imposti dalle presenze delle due divinità non dovevano affatto essere evocati insieme, in modo da con¬figurarne costantemente il contrasto.
Le pagine molto equilibrate che Jeanmarie dedica alla presenza sia di Apollo sia di Dioniso nel santuario di Delfi, chiariscono che Dioniso “non risvegliava la gelosia di Apollo, poiché non appariva in con¬correnza con Apollo nell’ambito che que¬st’ultimo si riservava”.
E se Dioniso regna nel presente, è il futuro il dominio di Apollo. In realtà, se-condo G. Colli (La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1978, pagg. 45 segg.), la divinazione del futuro non implica un do-minio esclusivo della necessità. Se qual-cuno vede prima quello che accadrà fra un minuto o fra mille anni, ciò non ha nulla a che fare con la concatenazione di fatti o di oggetti che produrrà questo futuro. Necessità indica un certo modo di pensare tale concatenazione, ma preve-dibilità non significa necessità.
Un futuro è prevedibile non perché esista un nesso continuo di fatti tra il presente e l’av-venire e perché in qualche modo miste¬rioso qualcuno sia in grado di vedere in anticipo tale nesso di necessità: è pre¬vedibile perché è il riflesso, l’espressione, la manii estazione di una realtà divina, che da sempre, o meglio al di -fuori di ogni tempo, ha in sé il germe di quel¬l’evento per noi futuro.
Perciò quell’avvenimento futuro può non essere prodot¬to da una concatenazione necessaria àtì essere ugualmente prevedibile; può essere il risultato di caso e necessità mescolati e intrecciati, come sembrano pensare al-cuni sapienti greci, per esempio Eraclito. Questa mescolanza si addice alla natura di Apollo e alla sua doppiezza. La sfera della follia, che gli appartiene, non è la sfera della necessità, ma piuttosto dell’ar¬bitrio. Analoga indicazione viene dall’am¬biguità del suo manifestarsi: l’alternarsi di un’azione ostile e un’azione benigna suggerisce il gioco piuttosto che la ne¬cessità. E per sino la sua parola, il re* sponso oracolare, sale dall’oscurità della terra, si manifesta nell’invasamento della Sibilla, nel suo farneticare sconnesso, ma che cosa esce fuori da questa magmatica interiorità, da questa indicibile possessio¬ne? Non parole indistinte, non allusioni scomposte, bensì precetti come “nulla di troppo” oppure “conosci te stesso”.
Il dio accenna all’uomo che la sfera divina è sconfinata, insondabile, capricciosa, folle, priva di necessità, tracotante; ma la ma-nifestazione di essa nella sfera umana suona come un’imperiosa norma di mo¬derazione, di controllo, di limite, di ra-gionevolezza, di necessità.
Attraverso l’oracolo, Apollo impone al-l’uomo la moderazione, mentre lui stesso è smoderato; lo esorta al controllo di sé, mentre lui si manifesta attraverso un “pathos” incontrollato: con ciò il dio sfi¬da l’uomo, lo provoca, lo istiga quasi a disubbidirgli. Tale ambiguità si imprime nella parola dell’oracolo, ne fa un enigma.
E questo, lo avevamo già precedente-mente notato.
In altri appunti sulla profezia, ed in particolare quella savonaroliana si os-servava che ” Savonarola prende co-scienza sempre più del suo esser pro-feta, identificandosi con l’archetipo del Profeta, che ama il suo popolo e lo ri-prende, lo sferza, gli ricorda in ogni mo-mento la parola di Dio, e quelli che più ama, di più riprende. In questo senso egli si appropria della parola dei Profeti, intesa come una realtà linguistica uni¬versale capace di adattarsi agli eventi particolari. Le Sacre Scritture sono per il frate un deposito semantico di espres¬sioni attualissime, di validità universale, e a questo deposito attinge per proiet¬tarsi nel futuro senza però mai perdere di vista i presupposti storico-politici che restano sempre il sostrato necessario alla sua profezia. Profezia quindi in vivo e stretto rapporto col presente, quale mo¬mento •logicamente analitico di fattori at¬tuali visti nella prospettiva dei loro ef¬fetti consequenziali. È previsione logica affinata da una dura disciplina spirituale e intcriore. Nella concezione tomista, a cui il frate si attiene, la profezia è dire¬zione degli atti umani, e comporta quindi un’aderenza perfetta alla storia” (G. Di lacovo, Sulla Profezia Medioevale; Alla Bottega, Anno XII, n. 6, Nov-Dic 1974, pag. 69).
Savonarola fu profeta, e grande, anche in senso ellenico, nella disperazione tra¬gica della sua vita e della sua fine. Nella fusione del presente e del futuro, con la consapevolezza d’un passato di sofferenza destinato a ripetersi. Ma fu anche profeta di gioie e di felicità, necessariamente fuse al dolore.
E visse il momento del-l’invasamento, il conflitto interno che è proprio di chi è profeta: “Dice Geremia: ho fatto proposito di non parlare più, Signore, dei fatti tuoi: così io, qualche volta, ho fatto pensiero, quando io sono giù, e detto: io non voglio più parlare né predicare di queste cose, ma voglio starmene e lasciar fare ora Dio: e tut¬tavia, come io sono poi salito quassù, non sono potuto contenermi. Et factus est in corde meo quasi ignis exaestuans, claususque in ossibus meis et defeci, fer-re non sustinens: io non ho potuto far altro. E non posso fare che io non dica, perché io mi sento tutto ardere, io mi sento tutto infiammato dallo Spirito del Signore.
Ma poi, quando io sono giù, io dico a me: io non voglio più parlare di queste cose. E tuttavia, come io sono ri¬montato quassù, non si può tenere queste cose.
O Signore mio, o Spirito, tu non hai paura di persona di mondo, tu non guardi in faccia di uomo, e sia che el si voglia, tu dici la verità a ciascheduno. O Spirito, tu vai eccitando persecuzioni e tribulazioni contro di te, tu vai com-movendo le onde del mare come fa il vento, tu vai eccitando le tempeste. Deh, non fare, Spirito: el non si può fare altro, questa è la conclusione: bisogna fare così” — Pred. 22a sopra l’Esodo — (G. Di lacovo, La Predicazione Profetica di Savonarola; Alla Bottega, Anno XIII, n. 5, sett-ott. 1975, pagg. 52 segg.).
Il “‘bisogna fare così” è l’obbedienza ad un impulso più forte d’ogni cosa. È la “Necessità”, che non coincide con il cieco agire, ma con l’agire, qui il parlare, il profetare, nonostante tutto.
Che poi il profeta dica cose giuste che tutti sannr e vorrebbero, e che per que¬sto, attiri su di sé la persecuzione ed il disprezzo, questo è il Dioniso, e già ne abbiamo parlato prima. C’è qualcosa di simile e di tragico nelle figure di Savo-narola, di Orfeo, e di tanti altri uomini — che tutti siamo ” anche ” profeti, ma pochi sono profeti — inchiodati dal dis¬sidio fra conoscere ed agire, fare e sa¬pere, presente, che solo esiste, e passa¬to-futuro, nascenti dalla necessità pratica del porre un limite alle cose, che limiti non sembrano avere.
A Delfi si veneravano “contemporanea-mente” Apollo e Dioniso. Certo, non si trattava soltanto di una differenza for¬male tra il culto di Apollo, eminente¬mente oracolare, e quello di Dioniso, pressoché estraneo alla mantica (in Gre¬cia), bensì della fondamentale autonomia delle due sfere, dei due universi, evocati dall’una o dall’altra divinità: autonomia che rendeva precario il contrasto, mentre
a volte poteva consentire (come a Delfi) l’alleanza. La contemporaneità non da la identificazione, non rende simili, ma uguali.
E proprio quell’autonomia fra la divinità che con la sua sola presenza im¬poneva il pensiero dell’aldilà, e la divi¬nità depositaria dell’interpretazione della parola del “divino”, era divenuta impos¬sibile per chi viveva nella notte della “co¬scienza infelice”, dopo che gli dei “si era¬no allontanati”.
Nacquero allora i due nuo¬vi volti: Apollo e Dioniso, quali simboli di un contrasto permanentemente attivo e insanabile, che ha innanzitutto un dissi¬dio fondamentale nell’accesso al passato — il dissidio fra vivere e sapere, fra ab¬bandono e ragione, il paradossale dimen¬ticare per sapere che, in termini tempo¬rali, diveniva il dimenticare il passato per viverlo nel presente.
Se però eliminiamo dalla proposizione precedente l’aggettivo “paradossale” (o se, almeno, lo conside¬riamo soltanto come attributo della ge¬nuinità dell’accesso al divino), ci ritro-viamo nell’ambito originario dell’antico Dioniso.
Tutta la dialettica fra Dioniso e Apollo si trasforma da linguaggio della nuova mitologia del tempo della “coscienza in-felice” in autentico linguaggio dionisiaco, se eliminiamo i nomi delle due divinità e riconosciamo al loro posto due costanti all’interno dello stesso dionisismo. Come si è già detto, è infatti opportuna defini¬zione dell’essenza dell’esperienza dioni¬siaca quella legge “del Nulla che urge alla forma” che vennà definita da Benn. Ma non si tratta .d-uK-^uirtrii^c tragico e doloroso, bensì più esattamente di un paradosso: nell’epoca in cui gli dèi “non si sono ancora allontanati”, il paradosso del divino.
Non lontano dalle esperienze romanti-che della “coscienza infelice” è l’ateismo del marchese De Sade; e soprattutto tale analogia ha verità e valore in quanto l’uno e l’altro atteggiamento dinanzi al divino (”che si è allontanato” — “che non è”) stanno sotto il segno di Dioniso. Nel pensiero di Sade la crudeltà e l’esplica-zione di ogni immaginabile attività ses-suale “colmano il vuoto lasciato dall’as-senza di Dio” (come scrive Klossowski nella prefazione ad “Aline et Valcour”).
Va subito detto che non si vuole sta¬bilire alcun parallelo, che sarebbe arai-trario e inesatto, tra le décable dei per-sonaggi di Sade e le azioni rituali dei devoti di Dioniso* (tanto più che la componente sessuale del dionisismo è presso-ché assente — come sottolinea Jeanma-rie — nel menadismo).
Allo stesso modo non si può avallare il ” Dionisismo ” di Sade considerando a-naloghe la ferocia del dio evocato da Eu-ripide nelle Baccanti e quella degli eroi di Sade.
Sade non può essere detto devoto né di Dioniso, né di ogni altro dio: per lui, “Dio” non esiste. Si è fatto riferimento prima alla notte della “coscienza infeli¬ce” appunto per evitare di riconoscere nel comportamento dei personaggi di Sade alcun atto di devozione verso divinità nominate o taciute.
Esiste però per Sade un fondamentale principio di contraddi¬zione — non personificato, presente nella radice dell’essere —, che attribuisce alla soddisfazione dei desideri di crudeltà e di attività sessuali libere da qualsiasi cen-sura caratteristiche di “perversioni” e di “anomalie mostruose”, nell’istante stesso in cui egli vi riconosce un comporta¬mento universalmente ideale: il compor¬tamento dell’età dell’oro. Si è probabil¬mente insistito troppo, anche per l’influ¬enza degli studi di psicologia sul cosid¬detto comportamento “sadico”, sulla pre¬sunta necessità di infrangere una legge sociale o religiosa, quale condizione es¬senziale della piena soddisfazione per i personaggi “perversi” e “mostruosi” di Sade. In realtà basterebbe pensare al significato profondo di simboli, come il castello o il monastero inaccessibili, ove si svolgono le “mostruosità” evocate da Sade, per intendere che il principio di contraddizione insito nel pensiero di Sade e nel comportamento dei suoi personaggi non è tanto rivolto contro le censure della società, quanto contro l’esistenza uma¬na nella sua interezza.
Il castello o il monastero, isolati dal resto del mondo, sono i nuclei del mondo futuro: simboli di fondazione d’una fu-tura età d’oro, della quale si può dire soltanto che nascerà dalla contraddizione sistematica dell’umano, te dell’umanità come specie.
In questo senso Sade è particolarmente vicino al dionisismo o, più esattamente, la sua esperienza apre una diversa via al “dionisismo” del tempo della “coscien¬za infelice”. Anziché evocare il contrasto
Dioniso-Apollo, Sade suggerisce che l’e-sperienza del nulla, se vissuta nella sua pienezza, può condurre alla forma grazie alla forza che appunto è insita nel nulla e che lo spinge verso l’essere. Egli, inol¬tre, riconosce in ogni comportamento umano che abbia come prospettiva la sof¬ferenza e la morte (in quanto conseguen¬za di uccisione, o attività sessuale estra¬nea alla conservazione della specie), una via verso il nulla.
Una spia dell’autentico atteggiamento di Sade nei confronti della “coscienza infelice” è costituita, d’altronde, dal se¬dicente apparato erudito di alcuni fra i suoi romanzi: dalle note che giustificano il comportamento dei personaggi con la citazione di istituti dell’antichità, e in generale dall’orizzonte di un passato in cui gli uomini erano “più liberi” o “più ragionevoli” (più vicini al nulla).
È di nuovo il passato che, per soprav-vivere, dev’essere dimenticato e perciò durare nel presente. Il presente in cui vive Sade ha dimenticato il passato, e Sade lo deplora; ma la fatalità di quel-l’oblio che appare come una degenerazio¬ne (i divieti religiosi e sociali) consente a chi si isola dal presente — nel castello o nel monastero — di vivere il passato e di fondare il futuro. Da questo punto di vista, i simboli dei “luoghi inaccessi¬bili” in cui si compiono “mostruosità” permettono a Sade di spiegare quasi di-dascalicamente il processo dimenticare-sapere, spezzando la simultaneità delle due esperienze e isolando — gli uni nel “mondo”, gli altri nel “castello inacces-àAbire-’— coloro che hanno dimenticato da coloro che sanno.
L’elemento di contraddizione nel com-portamento dei personaggi di Sade è, co-me l’essenza del dionisismo, ciò che con la sua sola presenza impone il pensiero dell’aldilà. Ma l’aldilà di Sade non è un convenzionale regno ultraterreno, bensì — in termini temporali — l’aldilà della specie umana: l’età d’oro o la forma alla quale urge il Nulla.
Se confrontiamo queste proposizioni con il pensiero di Bachofen sull’essenza greca del dionisiaco, possiamo osservare che solo la preoccupazione storica ha im¬pedito a Bachofen di spingere la sua no¬zione del regno di tenebra, cui appartiene
*Le donne di Dioniso si chiamavano mainàdes, « menadi », le forsennate, le furibonde. Il dio stesso mainòmenos, il « furioso », in questo senso lato, non in quello di « pazzo ». // termine deriva da « manìa » = furore — gr. —
la materia e quindi anche la vita, fino al valore di presupposto del comporta-mento “mostruoso” dei personaggi di Sade. Secondo l’interpretazione di Bachofen, nell’esperienza dionisiaca greca la vita appartiene al regno della morte, al regno di Dioniso, dal quale essa scatu¬risce continuamente solo per garantire la molteplicità delle morti. Bachofen affer¬ma, tuttavia, che Dioniso esige la “pro¬fusione vitale”.
Egli sottolinea, d’altronde, fino a qual punto la legge che esige tale “profusione vitale” voglia anche la morte, poiché è pagare il proprio debito alla materia, e menziona la crudeltà di coloro che sono soggetti alla forza del dio: le madri che gli sacrificano i propri -figli, le baccanti feroci.
Più di ogni altro storico, Bachofen ha insistito nel configurare Dioniso come ” dio delle donne “, persuasore e sedutto¬re dell’animo femminile. Il principio di vitalità appassionata è, per Bachofen, es¬senzialmente femminile. Egli qui è lonta¬no dal pensiero di Sade, e la ‘loro opposi¬zione può configurarsi nell’antitesi fra ab¬bandono entusiastico (femminile) alla legge del nulla, e deliberata volontà (ma¬schile) di applicare la legge del nulla. Nel quadro concepito da Bachofen, gli eroi di Sade sarebbero creature ” apollinee “, ma¬schili, convertite al dionisismo e convinte a porre al servizio del dio delle donne la loro volontà maschile.
Questa antitesi ha un significato pro-fondo nell’ambito del periodo della ” co-scienza infelice “, poiché presuppone ab-bandono e volontà quali norme di com-portamento in rapporto con l’assenza de-gk *Jél’.~ Abbandono è, d’altronde, il com¬portamento fatale di chi, dopo che gli dèi ” si sono allontanati “, evoca una nuova mitologia in cui riconosce un nuovo Dio¬niso e un nuovo Apollo: creare un mito si¬gnifica, se il mito è genuino, abbandonar¬si al flusso del mito, lasciarlo spandere in sé.

La volontà, invece, nel senso del com¬portamento volitivo dei personaggi di Sa¬de che mira ad uniformarsi alla legge del nulla, nella convinzione che il nulla ” urga a una forma ” (’alla’ forma), esclude la creazione dei miti: Creuzer e Bachofen fu¬rono genuinamente creatori, oltre che stu¬diosi, di miti; Sade non creò alcun mito, bensì fu costretto a subire un mito: il mi¬to del dovere, che con minore esattezza si potrebbe anche chiamare mito del desi-derio, della libidine, e che impose ai suoi personaggi il dovere di esplicare ogni -for-ma di crudeltà e di attività sessuale estra-
nea alla conservazione della specie, affin-chè gli uomini obbedissero senza riserve alla legge del Nulla. L’importanza nel pen-siero di Sade della volontà quale strumen-to per adeguarsi alla legge del Nulla indu-ce spontaneamente a riconoscere nella fu-tura età dell’oro, o nella forma cui urge il Nulla, che sta all’orizzonte dei suoi perso-naggi, un mondo diverso da quello di Scho-penhauer, solo in quanto proiettato nel fu¬turo ed ignoto. Escludendo l’ignoto, alme¬no nei limiti garantiti dalla facoltà profe¬tica, il medesimo discorso riconduce in una tappa successiva al Nietzsche.
Il mondo futuro è profetizzato da Nietz-sche in termini che Bachofen avrebbe parzialmente approvato, ma che, nelle lo¬ro ultime conclusioni, avrebbe certo con-siderato sommamente negativi, a parere di Furio lesi (op. cit. pagg.137 segg.). E’ evidente l’angoscia che avrebbe procu¬rato al patrizio di Basilea una profezia se¬condo la quale la dissoluzione sociale egualitaria corrispondente all’avvento so¬vrano di Dioniso sarebbe stata la prepara¬zione dell’avvento delle grandi guide, de¬stinate a dominare le moltitudini di uomi¬ni resi” liberi e uguali dalla sovranità del dio. In questo discorso, tuttavia, il pensie¬ro di Nietzsche e le sue critiche a quello di Schopenhauer sono particolarmente im¬portanti quale conclusione dell’esperienza della ” coscienza infelice “, che fu propria anche di Bachofen.
Riprendendo l’aggettivo consacrato da Nietzsche, ma in senso molto diverso, Jeanmarie conclude il suo volume affer-mando che ” nella stoica, certo molto i-nattuale del diomsisiUG”^ .iicgazfetó”radi-cale’dei valori tradizionali propria del cri-stianesimo dei primi secoli e rivolta an¬che contro il culto di Dioniso, rappre¬senta probabilmente un elemento di at¬tualità. Così scrivendo, egli stabilisce un parallelismo tra la funzione che egli rico¬nosce peculiare del dionisismo — il rinno¬vamento di una visione dell’universo e del destino — e quella, da lui considerata ana¬loga, del cristianesimo.
Questi grandi movimenti di rinnova-mento spirituale — sostiene Jeanmarie — sono caratterizzati innanzitutto da una violenta e iconoclasta distruzione dei va-lori tradizionali, e solo secondariamente da un rinnovamento ideologico e dall’epi-fania di nuovi dèi.
La storia spirituale dell’umanità è dun-que scandita da movimenti di rivolta e di distruzione che segnano il ritmo profon¬do della vita. Del dionisismo è quindi
inattuale l’ideologia, attuale piuttosto il carat¬tere distruttore e novatore.
La contrapposizione degli aggettivi ” at¬tuale “e ” inattuale ” ci riconduce, d’al-tronde, al nucleo del nostro discorso, e cioè al significato e al valore del tempo, sia nel dionisismo originario, sia in quello nato nella notte della ” coscienza infeli¬ce “.
Nel criticare il pensiero di Schopenhauer, Nietzsche si preoccupò, infatti, in modo particolare del significato e della natura del tempo. Se, per Schopenhauer. il passato esiste in quanto l’intelletto mos¬so dalla volontà ne traccia le forme, per Nietzsche occorre considerare il ” passato dell’intelletto “, la sua storia o meglio la sua preistoria. In tal modo sarà possibile penetrare la notte in cui affonda quel pas¬sato, o quella parte di passato, che non può trovarsi nel pensiero presente, giacché il pensiero presente lo considera cau¬sa del presente. Questa prospettiva antro¬pologica e psicologica dei rapporti fra pas¬sato e presente (che evidentemente trova paralleli .nelle ricerche di Darwin e di Spencer) conclude in un certo senso il pe¬riodo della “coscienza infelice”, poiché tende ad attribuire a quel periodo una pre¬cisa connotazione storica, anziché esisten-ziale. Se il paradosso dionisiaco consiste nella dolorosa coincidenza fra dimentica-re e sapere, il pensiero di Schopenhauer può essere considerato la sua radicalizza-zione, o meglio la sua formulazione a livel¬lo rigorosamente intellettuale e nella pro¬spettiva più di una filosofia della cono¬scenza che di un’esperienza religiosa.
Il presente contiene il passato poiché l’intelletto presente, mosso dalla volontà, concepisce l’unica realtà del, passato, escludendo un passato giacente nel passa¬to. Il periodo della ” coscienza infelice ” coincide dunque con una condizione esi¬stenziale della quale la scomparsa degli dèi è formulazione in termini mitologici. Ma quando Nietzsche propone di scoprire il passato ” dimenticato ” (inesistente, dal punto di vista dell’intelletto presente) nel¬la graduale nascita dell’intelletto — nel …
” passato dell’intelletto “, si potrebbe di-re, se la realtà dell’intelletto non dovesse essere considerata come globaliiià, pur senza trascurare l’interna differenziazione — egli configura la notte della ” co-scienza infelice/ ” come un determinato periodo della storia e l’allontanarsi degli dèi come un momento dell’alterna vicen-da dei rapporti fra uomo e divino.
In questa prospettiva, i nomi di Dioni-so e di Apollo non sono più, come per Creuzer e per Bachofen, designazioni di nuovi volti divini, nati entro una nuova mitologia corrispondente alla percepita condizione esistenziale, ma simboli — non miti — delle alterne direzioni della storia e delle metamorfosi dell’umanità.
Da Bachofen, infatti, Nietzsche trae non il mito di Dioniso, ma la storicizzazione del dio¬nisismo come istante, ripetuto, delle meta¬morfosi umane, e porta tale schema stori¬co a conclusioni che avrebbero probabil¬mente fatto inorridire Bachofen.
Sarebbe profondamente romantico, e probabilmen¬te arbitrario, affermare che il dio/reso da Nietzsche davvero ” inattuale ” in quanto calato dalla sfera temporale del mito a quella del tempo storico, si fosse vendica¬to con la sua arma consueta: Conducendo, cioè, alla follia l’eterodosso.
Lo schema di questo discorso ” romantico ” è stato però usato — ma con diverso tono e diver¬si fini — da Thomas Mann nel Doktor Faustus: se sostituendo la parola ” demo¬ne ” al nome Dioniso, Adrian Leverkiihn si rivela un Nietzsche che è entrato in con¬tatto con il dio, ma che ne ha usufruito conducendolo entro il tempo storico, e ha scontato con la follia la sua colpa. La col¬pa di Nietzsche, poiché così bisogna dire, pur s3znz&•• vàìcr parlare di una sua puni-zione, consistette nell’usufruir e storica-mente di Dioniso, nel calare Dioniso en-tro la storia presente e -futura, nel confi-gurare Vavvento sovrano di Dioniso come fase fatale della storia umana, preparatri-ce della venuta delle grandi guide, degli umani sovrani delle moltitudini.
Non fu genuina mitologia, bensì tecnicizzazione di un mito: lo sforzo di concludere la notte della” coscienza infelice ” determinò la contemplazione dei demoni, anziché il ritorno degli dèi
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Pubblicato da Gennaro di Jacovo
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sabato 28 luglio 2012
Cenni sulla linguistica per Anna Maria …
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Cenni sulla Linguistica
per Anna Maria …
di
Gennaro Di Iacovo






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… il presepe è stato attuato da Anna Maria, mia Moglie, nella Scuola Media Ungaretti di Grosseto …
§§
§
alla prof
… Anna Maria … Maddalena Luigina di Jacovo
grande insegnante di Sostegno alla
Scuola Giuseppe Ungaretti
di Grosseto …
e … ai miei amati alunni.
*






« Perché dunque incolparmi adesso, dell’avervi messo a parte delle mie ansietà, se mi ci spingesti e scongiurasti Tu stessa? Forseché, nel disperato e mortale sbaraglio in cui mi dibatto, sarebbe in tono, che voi intanto ve la godeste? O vorreste forse, adesso, esser soltanto campagne di gioie, e non anche, più, di dolore? rallegrarvi con gli allegri, sì, ma piangere coi piangenti, no? Tra i veri e i falsi amici non c’è maggior divario che dell’ associartisi i falsi, nella fortuna, ma, i veri, nella sventura ». (Abelardo ed Eloisa, Lettera V - Alla Sposa di Cristo il suo servo - A.F. Formiggini Editore, Roma 1927, pagg. 113 segg.).
Secondo Ferdinand de Sausurre « la materia della linguistica è costituita anzi¬tutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della “buona lingua”, ma delle espressioni d’ogni forma. Non è tutto: poiché il linguaggio sfugge piut¬tosto spesso all’osservazione, il linguista dovrà tenere conto dei testi scritti, i quali soli potranno fargli conoscere gli idiomi del passato o quelli -lontani.
Il compito della linguistica sarà a) fare la descrizione e la storia di tutte le lingue che potrà raggiungere, ciò che comporta fare la storia delle famiglie di lingue e ricostruire, nella misura del possibile, le lingue madri di ciascuna famiglia; b) cer¬care le forze che in modo permanente e universale sono in gioco in tutte le lingue, ed estrarre le leggi generali cui possono ricondursi tutti i particolari fenomeni della storia; e) delimitare e definire se stessa » (F. De Sausurre, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1979, pag. 15).
Osserva il Mounin {Guida alla linguistica, U.E. 626, Feltrinelli ed., Milano 1975, pagg. 19 segg.) che la « linguistica », intesa come lo studio scientifico del linguaggio umano, è « un insieme di conoscenze molto antico » e, nello stesso tempo, « una scienza assai recente », perché ha in realtà una lunga tradizio¬ne scientiflco-culturale alle spalle, anche se solo recentemente è stata clamorosa¬mente portata all’attenzione d’un vasto pubblico, grazie a recenti studi sociologici e psicologici sui sistemi linguistico espressivi.
Prima gli Indiani, poi i Greci ed .infine gli Arabi hanno posto le basi per un’ana¬lisi fonetica di notevole valore, anche se troppo trascurata per duemila anni.
Certamente, possiamo prendere come motivazione di base della nascita del linguaggio l’esigenza di comunicare impressioni ed informazioni nata dall’incontro di esseri dotati di sensibilità e, se vogliamo, d’intelligenza. Molto tardi si è svilup¬pata la scrittura. Per giungere a questa si è dovuto genialmente intuire che è pos¬sibile connettere ad altro segno-simbolo grafico-fisico un suono, ed infine un si¬gnificato convenzionale. Si è giunti per gradi a quei segni che ora chiamiamo « let¬tere », e che hanno la funzione di materializzare visibilmente dei suoni (fonemi).
I primi linguisti senza dubbio sono stati « gli uomini che hanno inventato e perfezionato la scrittura » (Meillet, in Mounin, op. cit.). Durante il Medio Evo, ac¬canto ad uno studio convenzionale e grammaticale, spiccano alcune intuizioni ori¬ginali e quasi anticipatrici di teorie ancora oggi attuali, come quelle di Dante, che esamineremo più oltre.
La riforma dell’ortografia, operata in tutta Europa e resa operante con l’inven¬zione della stampa, stimolerà lo studio della fonetica fino al secolo XVIII. Del XIV secolo sono le prime grammatiche delle lingue volgari. Guido Cavalcanti scrisse « una grammatica e un’arte del dire » sul volgare fiorentino (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Voi. I, pag. 56, Einaudi, 1958). Dal XVI secolo inizia lo stu¬dio delle lingue amerinde e nascono i primi dizionarì poliglotti. Si tentano le prime classificazioni linguistiche (Scaligero). Nel XVII e XVIII secolo la ricerca si esten¬de in ogni direzione: la fonetica progredisce con gli studi anatomici ed appas¬siona gli inventori delle stenografie e delle lingue artificiali, e gli educatori dei sordomuti.
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Tuttavia resta insolubile il grosso problema dell’origine del linguaggio, malgrado le ipotesi proposte, tutte non sufficientemente attendibili o non verificabili, come quella dell’ebraico lingua madre. La scoperta del sanscrito, tra il 1786 e il 1816, segna una grande svolta in questo campo, Si dimostra, con una evidenza indiscu¬tibile, la parentela tra il latino, il greco, il sanscrito, le lingue .germaniche, slave e celtiche. Nasce, con i tentativi operati da Franz Bopp per ricostruire l’indoeuro¬peo nei suoi tratti essenziali, la grammatica comparata. Si prende spunto, para¬gonando fra loro i diversi linguaggi, dai metodi e dai principi delle scienze natu¬rali. Le lingue vengono assimilate ad organismi viventi: allo studio del linguaggio viene applicato, per quasi mezzo secolo, il metodo biologico.
Secondo i grammatici « naturalisti », come lo Schleicher, che era anche bota¬nico-naturalista, le lingue nascono, crescono e muoiono come qualsiasi organismo vivente. E la loro vecchiaia inizia dal momento in cui si codificano nella scrittura.
Dagli studi linguistici comparativi, si sviluppa la linguistica storica, che nasce dall’esigenza di paragonare fra loro fenomeni linguistici verificatisi attraverso stadi progressivi d’una stessa lingua. Così la grammatica comparata da origine al¬lo studio della incessante evoluzione delle lingue. Questa trasformazione è rea¬lizzata tra il 1876 ed il 1886 dalla scuola dei neogrammatici, a cui si deve la si¬stemazione rigorosa del fonetismo arioeuropeo.
La fonetica detiene in questa fase una importanza predominante: riesce a spie¬gare la quasi totalità dei mutamenti linguistici.
Ci si rivolge anche alla nuova scienza: la psicologia, per spiegare la dinamica di alcuni fenomeni generali.
La lingua, studiata storicamente, non è più considerata un’entità suscettibile d’un’analisi biologica, ma piuttosto un’istituzione umana. La linguistica diviene, perciò, una scienza storica, e non appartiene più alla sfera delle scienze naturali.
Una nuova impostazione al problema linguistico sarà data da Sausurre (1857-1913), che interpreterà il linguaggio come una istituzione sociale. Come già si è accennato, compito fondamentale della linguistica è, per il Sausurre, quello di descrivere il maggior numero possibile di lingue storico-naturali e famiglie di lin¬gue sia nella loro funzionalità in un dato momento, sia nel loro divenire attraverso il tempo (studio sincronico o diacronico - « langue » o « parole »), sia da un punto di vista interno, sia da uno psicosociologico, culturale, storico e, in generale, « esterno ».
La teoria del linguista svizzero, in pratica, rovesciò le impostazioni tradizionali della linguistica. Egli stabilisce che la prima tappa d’una scienza del linguaggio dev’essere lo studio del suo funzionamento, « hic et nunc », e non quello della sua evoluzione. La linguistica storica deve esser messa al secondo posto, da un punto di vista metodologico, rispetto ad una più importante linguistica descrittiva. È que¬sta la nota opposizione tra linguistica sincronica e linguistica diacronica.
Lo sforzo di comprendere il funzionamento puro del linguaggio come istituzio¬ne sociale, qui e adesso, conduce il Sausurre a mettere l’accento sulla nozione di sistema. Questo, per lui, è quasi sinonimo di codice. Così « segno », per lui, non è più sinonimo di parola, termine troppo generico, e la nozione di « catena par¬lata » diviene prioritaria rispetto a quella di « frase ». Il termine che Sausurre usa in questo campo è quello di « unità ». Egli vuole individuare le unità reali che compongono la catena parlata. Gli strumenti che propone per studiare le unità di codice che costituiscono i messaggi, sono analisi strutturali. Per questo, con lui, ha inizio il cosiddetto « strutturalismo ». ‘
La lingua, per il fondatore della moderna linguistica strutturale, « è il patri¬monio collettivo delle forme foniche “significanti”, univocamente combinate con i relativi “significati”. Questo’patrimonio di segni è organizzato in “sistema”, in quanto ciascuno di essi deve la sua esistenza al fatto di entrare in certi rap¬porti con gli altri.
La “funzionalità” del sistema — ciò che lo rende uno strumento atto a funzio¬nare nei singoli atti di “parola” — è costituita appunto dalle opposizioni e corre¬lazioni intercorrenti tra i singoli elementi, i quali risultano individuati dai loro rap¬porti differenziali nei confronti degli elementi similari, piuttosto che dalle loro caratteristiche positive » (R. D’Avino, Introduzione a un corso di Storia Comparata …
delle lingue classiche, Kappa Ed., Roma 1967, pagg. 13 segg.). Quindi, per com¬prendere veramente un termine, non si può isolarlo dal sistema di cui fa parte
In tal modo il linguista svizzero anticipa i risultati e le scoperte dovute agli studi di antropologia culturale, che vedono la lingua non come legata ad una struttura oggettiva di cose, ma come creatrice di tali strutture, in funzione dei bi¬sogni della società che la pone e la mantiene in essere.
La lingua ha infatti la capacità di discriminare l’esperienza in significati e di organizzare le fonìe o le loro rappresentazioni grafiche in significanti.
Sausurre distingue, all’interno del fenomeno linguistico, un aspetto « oggettivo » costante, la « langue », ed un aspetto « soggettivo », individuabile, espressivo, la « parole ».
La « parole » è l’uso che ciascun parlante fa del patrimonio linguistico espres¬sivo comune (« langue »).
L’opposizione fra « langue » e « parole » si può interpretare come quella fra sistema astratto e sue singole manifestazioni materiali. Quella fra paradigmatica e sintagmatica si può interpretare in termini di codice e messaggio; ad essa molti fanno corrispóndere una distinzione terminologica fra struttura (sintagmatica) e sistema (paradigmatica). (G.C. Lepschy, La linguistica strutturale, P.B. Einaudi, Torino 1966, pag. 31).
I principali agenti del mutamento linguistico vengono individuati nei fenomeni dell’alternanza, dell’ analogia e dell’agglutinazione.
Dopo Sausurre, lo strutturalismo ha assunto varie tendenze:
Strutturalismo ontologico (Chomsky): concepisce, antistoricamente e naturali¬sticamente, le strutture sociolinguistichre come prodotto delle doti biologiche
contenute nell’uomo, nella sua natura, e quindi le ritiene « innate ».
Strutturalismo. storicizzante: riconosce nelle strutture un prodotto storicamente e tem¬poralmente circoscritto dell’agire umano. Lo strutturalismo praghese (Jakobson e Trubeckoj) è stato ontologico e storicizzante.
Strutturalismo metodologico: concepisce le strutture solo come sistemi utili alla pre¬
sentazione ed alla catalogaziene dei fenomeni.
Strutturalismo. epistemologico: nel riconoscimento del carattere strutturato d’un campo d’esperienza vede una necessità non derogabile della conoscenza umana.
Lo strutturalismo americano è stato soprattutto uno strutturalismo metodolo¬gico. Bloomfield, Harris, Hockett ed Hall ne sono i maggiori esponenti.
Poiché la lingua è un organismo in evoluzione, ci si offre la possibilità di un suo studio diacronico che ne colga l’evolversi temporale.
Sausurre privilegia però, come si è già detto, un secondo tipo di analisi del fenomeno linguistico, basato sullo studio della lingua in un determinato momento storico, così da descriverne il meccanismo ed i rapporti esistenti fra gli elementi che ne costituiscono il sistema. Così, pur ponendo in evidenza l’arbitrarietà del linguaggio, afferma che tale caratteristica è limitata e disciplinata daìla organicità del sistema.
Tutto il sistema della lingua poggia sul principio irrazionale dell’arbitrarietà del segno, per cui il significato viene unito al significante non per una precisa legge naturale, ma in base a criteri « arbitrari » scelti dal parlante.
Questo principio, applicato senza restrizione, porterebbe alla massima con¬fusione.
Lo spirito riesce ad introdurre un principio d’ordine e di regolarità in certe parti della massa dei segni, ed è in ciò il ruolo del relativamente motivato. (F. De Sausurre, Corso di Linguistica Generale, Laterza, Bari 1972, pag. 159).
Solo una parte dei segni è assolutamente arbitraria. Presso altri interviene, in¬vece, una serie di rapporti che ne limitano l’arbitrarietà, lasciando il posto ad una motivazione, che resta, comunque, pur sempre parziale.
Questi rapporti che determinano il significato arbitrario dei segni sono detti paradigmatici (o « associativi »), in quanto definiscono o precisano il significato all’interno di una medesima serie (insegnare, insegnamentp, indottrinamento etc.). Sono rapporti in absentia.
Altri rapporti, però, contribuiscono a definire il significato di un segno, e sono i rapporti sintagmatici. Vale a dire quelli che intercorrono fra una parola e quelle che seguono o precedono nella frase.
Il valore della parola dipende, perciò, anche da quello delle parole che la cir¬condano nella catena parlata. Si tratta, quindi, di rapporti in praesentia.
Lo studio sistematico di ogni unità minima, di tutte le sue possibili associa¬zioni oppositive (paradigmatiche) o dei vari rapporti sintagmatici, coincide con una considerazione « sincronica » della lingua.
Questo si traduce in una « linguistica statica » che descrive un particolare stato della lingua. Questa per Sausurre è la « grammatica ».
Tale concetto supera la grammatica normativa tradizionale, basata su rigorose classificazioni delle parole (le « parti » del discorso). Si arriva ad una visione glo¬bale, sistematica e funzionale del fatto linguistico. La « morfologia » si fonde con la « sintassi » e con lo studio lessicologico. Anziché partire dagli elementi lingui¬stici, si parte dal sistema, avendo come fine la scoperta di come funzioni e si realizzi nei singoli atti del parlante. Dopo le feconde e geniali intuizioni di Sau¬surre, — scrive G.C. Lepschy (La linguistica strutturale, Einaudi 1966, pagg. 37-39) — le tendenze strutturalistiche si possono caratterizzare sommariamente co¬me segue, in base alle loro linee direttive teoriche.
La Scuola di Praga, e più recentemente A. Martinet, per il loro insistere sui valori funzionali della struttura linguistica e dei veri elementi di cui la struttu¬ra si compone.
La Scuola di Copenaghen, e in particolare la glossematica di L. Hjemslev, per il suo insistere sul carattere astratto del sistema linguistico, in base al quale van¬no interpretate le singole manifestazioni materiali.
La linguistica americana, in particolare postbloomfieldiana per il suo carattere tassonomico, per il suo basarsi cioè su processi di segmentazione (del continuum, dell’enunciato in elementi minori di cui esso è composto) e di classificazione di tali elementi in base alle loro proprietà distribuzionali (in base cioè alle possibilità che tali elementi hanno di combinarsi fra loro, formando unità di ordine superiore sempre più complesse).






Le teorie generative, in particolare di Chomsky, elaborate a partire dalle diffi¬coltà contro cui si scontrava l’analisi linguistica tassonomica, introducono nel modello linguistico da esse elaborato, delle regole che consentono di generare (tutte e solo) le proposizioni ammesse in una certa lingua; si introducono in parti¬colare delle regole di trasformazione che consentono di generare intere categorie di proposizioni a partire da altre categorie di proposizioni basilari (la cui struttura viene stabilita attraverso procedimenti tassonomici).
La grammatica generativa trasformazionale è composta da un blocco o com¬ponente centrale sintattico (un calcolo, come si direbbe con termini della logica moderna); da un lato questo è soggetto a un’interpretazione semantica (il compo¬nente semantico è quello che attualmente richiede maggior elaborazione); dall’al¬tro, le « stringhe » finali che esso produce vengono, attraverso le regole del com-ponente fonologico, materializzate nella catena parlata, nei messaggi fonetici che noi percepiamo. Una posizione centrale hanno le teorie di Jakobson e più recente¬mente di Halle, secondo cui nel componente fonologico ci si serve di un inventario di dodici «tratti distintivi binari » che costituiscono veri universali linguistici, co¬muni a qualunque lingua.






Noam Avram Chomsky porta i dati e le intuizioni di Sausurre a livelli decisa¬mente rivoluzionari. La linguistica, con lui, abbandona ogni finalità semplicemente classificatoria (linguistica tassonomica) per interessarsi soprattutto di ricostruire modelli ipotetici espliciti delle lingue, destinati a chiarire i dati linguistici osser¬vabili. Con lui ci si avvia verso una vera concezione teorica della linguistica, già abbozzata dagli strutturalisti.
Il linguista americano, che ricerca le forme della realtà profonda del linguaggio, reinterpreta la distinzione sausurriana di « langue » e « parole » nei termini di « competenza » (la conoscenza implicita, e non conscia, che il parlante ha della propria lingua) e di « esecuzione » (le frasi che il parlante produce realmente, nelle quali si manifesta la sua competenza), e si propone di definire la compe¬tenza linguistica, cioè, come egli scrive. « // sistema astratto di regole che sotto¬sta al comportamento verbale di ciascun parlante ». Chi parla una lingua può pro¬durre, e comprendere, un numero pressoché illimitato di frasi, la maggior parte delle quali non sono mai apparse prima, e, molto verosimilmente, non riappari¬ranno più.
Ogni parlante « reinventa » la lingua. Di questo aspetto creativo del linguaggio umano, fondamentale per Chomsky, non darebbe certo ragione una indagine che si rivolgesse all’esecuzione — cioè a un corpo di.testi necessariamente finito —, per estrarne, induttivamente, il sistema di regole che lo governano.
Del resto, come ricorda l’esperienza della scienza contemporanea, la raccolta, l’osservazione e la classificazione dei dati non ci garantiscono alcuna generalizza¬zione scientificamente valida, che possa cioè prevedere i nuovi fatti, oltre a fornire una descrizione plausibile di quelli già noti. La formulazione di una teoria scientifica comporta sempre un rischio. Essa viene costruita servendosi di un numero limi¬tato di esperienze, e quindi verificata nei fatti, che hanno la funzione di farla respin¬gere o accettare (« i dati dell’osservazione sono interessanti nella misura in cui hanno una incidenza sulla scelta fra due teorie rivali », scrive Chomsky). A questi principi s’attiene il linguista, allorché cerca di specificare le regole che governano la competenza lingusitica, elaborando alcuni modelli ipotetici (grammatiche), e confrontandoli quindi con i fatti linguistici reali, che decideranno quale sia il più adeguato.
A differenza degli strutturalisti europei, Chomsky non parte dalle unità minime della lingua, ma dalla frase. Il compito di uria grammatica risiede nella capacità di enumerare tutte le frasi incontestabilmente grammaticali della lingua data, esclu¬dendo, per converso, quelle pure incontestabilmente non grammaticali (V. Boarini -P. Benfiglieli, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna 1976, pagg. 666 segg.).
In questo modo il fatto centrale nello studio del fenomeno linguistico è la in¬nata capacità che ha ogni parlante di produrre e di comprendere un numero gran¬dissimo di frasi, anche se non le ha mai prima d’allora ascoltate né pronunciate. Questa capacità produttiva e decodificatoria nell’ambito linguistico, la chiama dunque « competenza (linguìstica) » (= conoscenza implicita che ogni parlante ha della propria lingua). Tale sistema mentale di regole e norme linguisticamente ope-ranti è codificato nella « grammatica ».
Chomsky tende a ridurre i modelli linguistici ad un insieme di regole meccanica¬mente applicabili sotto la forma di un algoritmo (procedimento sistematico che consente di pervenire al risultato desiderato con una bene determinata succes¬sione di operazioni eseguite secondo regole precise).
Abbandonando la pretesa di emettere giudizi inconfutabili sulle reali regole usate dal parlante nella produzione linguistica, la grammatica generativa cerca in sostanza di adeguarsi, cercando di definirne i meccanismi, alla realtà sottostante il comportamento effettivo dei parlanti. Così diventa una branca della psicologia.
Si cerca pertanto di ricostruire ipoteticamente e scientificamente la struttura di un meccanismo che ogni bambino ha riprodotto appropriandosi di un linguaggio in un determinato ambiente.
Questo meccanismo deve essere molto sistematico e ben coordinato, operante secondo schemi omogenei, se è vero che bambini di 2-3 anni sono già in grado di appropriarsene. Insomma, una grammatica è un meccanismo capace, pur essen¬do finito, di generare un insieme infinito di frasi grammaticali.
Il modello linguistico di base di cui Chomsky si serve per visualizzare i rapporti esistenti fra i costituenti (parole) della frase, è il « phrase marker » (indicatore della frase). Questo è anche definito « indicatore sintagmatico », in quanto scom¬pone la-frase in gruppi sintagmatici,- ossia in gruppi di parole che hanno un con¬tenuto unitario, e all’interno di ogni sintagma specifica le categorie (nome, articol et cetera) e le funzioni (soggetto, predicato etc.).
Il costituente più elevato è la frase.
Ad esempio:
l’uomo colpisce la palla
Una prima divisione comporta una prima distinzione fra due sintagmi. Il sintagma o gruppo nominale (GN] « l’uomo », forma¬to da articolo (o determinante) e nome, ed il sintagma o gruppo verbale « colpisce la palla ». Quest’ultimo può essere diviso ancora in altri costituenti: il verbo, « col¬pisce », ed il secondo gruppo (o « sintagma ») nominale (GN) « la palla ».
I due GN possono essere scomposti neMoro costituenti ultimi (parole, « mor¬femi » o, per Martinet, monemi, ossia unità linguistiche minime dotate di signi¬ficato):
l’uomo = GN (o SN) = Art (o Determ.) + N (sogg. = GN 1) la palla = GN - Art + N (compi, ogg. = GN 2)
La « formula » della frase semplice è, quindi, la seguente: Fs = GN + GV.
Mediante l’applicazione d’una serie di « regole di riscrittura » si giunge ai costi¬tuenti terminali:
GN + GV Art + N + GV Art + N + Verbo + GN + N + Verbo + GN + uomo + Verbo + GN + uomo + colpisce + Art + N + uomo + colpisce + la + N + uomo + colpisce + la + palla
(E. Cavallini Bernacchi, l’insegnamento della lingua, II Punto-emme edizioni, Mi¬lano 1975, pag. 84 e N. Chomsky, Le strutture della sintassi, U. Laterza, Bari 1974, pag. 36).
(Nota: le « regole di riscrittura » hanno la forma generale X—>Y, da interpre¬tarsi come « si riscriva X come Y ». Per es. F—» SN + SV (Frase = Sintagma (o Gruppo) Nominale + Sintagma Verbale).
Questo sistema permette — cosa che si nota facilmente — di visualizzare an¬che le differenze di struttura che possono generare ambiguità in frasi apparente¬mente simili.
Esaminiamo la frase seguente:
1. una vecchia
porta la sbarra
2. una vecchia porta
la sbarra
L’ambiguità è generata dal modo in cui si intende il monema « porta »: Nome
oppure Verbo. :
Nel primo caso la stringa categoriale sarà A + N + V + A + N.
Nel secondo sarà: A + Agg. + N + Pron. + V.
Ma esistono frasi che restano ambigue anche dopo un’analisi sintagmatica strut-turale di questo tipo.
Per esempio, la frase « il maestro spaventa il bambino » è ambigua, perché può essere assunta sia nel senso che il maestro compie qualche azione che spaventa il bambino, sia nel senso che il bambino si spaventa alla sem¬plice vista del maestro.
Nei due casi è diversa la relazione tra « il maestro » e « spaventa ». La gramma¬tica sintagmatica non è in grado di distinguere strutturalmente le due interpreta-zioni.
La grammatica sintagmatica non sa render conto delle relazioni intuitive fra una frase attiva e la corrispondente negativa, interrogativa o passiva.
IL TRASFORMAZIONALISMO
Per questo motivo Chomsky introduce le regole « trasformazionali ». La sua grammatica è detta perciò « generativo-trasformazionale ». In questa grammatica, ad una prima analisi « sintagmatica », che visualizza le strutture profonde delle frasi, segue una seconda analisi che chiarifica le regole di trasformazione, determinando la struttura superficiale delle frasi, che coincide con la forma finale degli enunciati.
Per esempio, alla struttura profonda « io ordino a te tu vieni » operano le trasformazioni che la mutano in:
« ti ordino di venire » .
La grammatica sintagmatica analizza solo la frase-base.
Costruito il primo indicatore sintagmatico, si può procedere all’applicazione di ogni possibile trasformazione:
ti ordino di venire?
Ti ordino di venire!
Vieni! … te lo ordino
Da parte mia ti si ordina di venire
Io … ordinarti di venire !…
(interrogativa, esclamativa ed imperativa; negativa, passiva ed enfatica).
La frase-base è « dichiarativa ».
Le posizioni della grammatica generativo trasformazionale, come osserva la Bernacchi, sono, implicamente, un’accusa continua ai fini ed ai metodi delle gram¬matiche tradizionali. Mentre quest’ultime (ch£ si identificano in genere con quelle scolastiche) si preoccupano di fornire al parlante un insieme di regole che rendano corretto ed ortodosso il suo uso linguistico, le grammatiche generative assumono che le regolarità della lingua siano già implicitamente possedute dal parlante, alla cui competenza, anzi, fanno continuo ricorso per valutare il loro grado di ade¬guatezza.
Il fine di tali grammatiche, quindi, non è di fornire le regole della lingua, ma di scoprirle deducendole dagli usi linguistici concreti. Esse si propongono non di « in¬segnare la lingua », bensì di indagare sui processi mentali che regolano l’acquisizio¬ne e l’uso delle lingue, cioè di formulare un sistema di norme che permetta la for¬mazione di tutte le possibili frasi grammaticali ed escluda invece quelle non grammaticali.
Non hanno dunque intenti didattici, ma scientifici. Loro scopo, come si è accen¬nato, è la costruzione di una teoria del linguaggio.
Per questo, tali grammatiche rifiutano ogni atteggiamento di infallibilità e di incontestabilità, prerogativa delle grammatiche tradizionali. In questo senso, pur senza assumere fini didattici, le grammatiche generative contengono fondamentali fermenti didattici. Le « regole » grammaticali si rivelano inutili in un doppio senso: da un lato perché l’insegnante dovrebbe abituarsi a non spiegare ai propri alunni i fenomeni della lingua, ma a cercarne invece insieme a loro diverse possibili spie¬gazioni; dall’altro perché ciascuno impara a parlare correttamente da” sé, purché venga esposto all’emissione di enunciati corretti, e purché non gli sì crei la paura di sbagliare.
In questo senso uno dei fondamentali compiti dell’insegnante riguardo all’ap¬prendimento linguistico resta quello di riprodurre e di incrementare la situazione naturale di conversazione, di scambio verbale spontaneo attraverso cui ogni bambino, senza che gli vengano insegnate regole, impara a parlare.
Sì tratterà poi, in diversi gradi a seconda del livello scolastico o delle fasce di
livello all’interno di una classe medesima, di prendere spunto da questi atti di co¬
municazione per avviare riflessioni sistematiche sulle caratteristiche dell’uso lin¬
guistico, così da rendere ciascuno il più possibile consapevole delle caratteri¬
stiche, della natura e delle possibilità dello strumento linguistico (E.C. Bernacchi,
pagg. 90-91).
§
:
DANTE PRECURSORE DELLA MODERNA LINGUISTICA
Intuizioni dantesche di chiarissima.attualità sono la considerazione del linguaggio come «forma» e del « segno » come « libero »; il riconoscimento del divenire delle .lingue e della sto¬ricità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di « lingua » come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come ten¬denza cosciente all’unificazione, che si attua attraverso il magistero dell’arte e il prestigio e l’azione del potere politico.
Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illu-strdu ud Antonino Pagliaro (A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dot¬trina linguistica dì Dante, Editore G. D’Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.).
Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell’uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente.
La parola è per lui il « segno fonico », come noi l’intendiamo, « rationale et sen¬suale » (De Vulgari Eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perche gli uomini ve lo attribuiscono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idetuz ad placitum » (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcun¬ché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento) (Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b).






” Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ra¬gione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d’altra parte riferire da una ragione all’altra se non per mezzo sensibile, fu neces¬sariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall’uno all’altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare » (De V.E. I, III, 2).
Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione. Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell’arbitrarietà del segno lin¬guistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni va¬riamente organizzati. Tale arbitrarietà (« aliqujs significare ad placitum ») è lega¬ta da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che ob¬bediscono all’istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emo¬tive (« per proprios actus vel passiones » — per mezzo dei suoi propri atti o pas¬sioni — De V.E,, I, III, 1).
La facoltà di connettere suono e significato è data all’uomo da natura, ma l’at¬tuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della li¬bertà che è inerente alla loro « ratio »:
« Opera naturale è ch’uom favella;
ma, così o così, natura lascia
poi fare a voi, secondo che v’abbella » (Paradiso XXVI, 130-132).
A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse.
Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e ori¬ginale.
Gli uomini che erano intenti alla costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni.
« Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medésima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quante erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano » (De V.E. I, VII, 7). Dante individua nel bisogno di comu¬nicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.
47 Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria « sinergastica »’(greco: siunergàzomai = lavoro insieme) dell’origine delle lingue.
Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama « idioma tripharium » come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.
Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell’uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale.
E nello stesso modo in cui ha intuito l’unità sostanziale dell’idioma tripharium, di cui la « lingua del sì », la « lingua d’oil » e la « lingua d’oc » sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della « lingua del sì » alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comu¬nione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della « lingua » nel senso « storico » della parola.
« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane. E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d’Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede » (De V.E. I, XVI, 3-4). È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità.
Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva”intuito, che l’affermarsi di una lingua co¬mune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, poli¬tiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il pre¬stigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l’italiano, per il francese, per il tedesco.
Ma Dante non ci trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l’avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche.
Se l’italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali. •• primissima signa », il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l’adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall’uso corretto della lingua.
Appare chiaro come Dante veda nell’unificazione linguistica un’opera di crea¬zione nazionale e popolare collettiva, ed un’opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell’Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell’appoggio d’un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all’uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.
Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine lingui¬stiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come « forma » (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del « segno » come « libero » (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto -linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di « lingua » come « co¬munione linguistica » nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all’unificazione, che si attua attraverso il magistero dell’Arte e il prestigio e l’azione del potere politico.






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venerdì, 10 agosto 2012
cenni sulla linguistica per Anna Maria
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sabato 28 luglio 2012
Cenni sulla linguistica per Anna Maria …
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Pubblicato da Gennaro di Jacovo a 01:10
Cenni sulla Linguistica
per Anna Maria …
di
Gennaro Di Iacovo






§
§§
… il presepe è stato attuato da Anna Maria, mia Moglie, nella Scuola Media Ungaretti di Grosseto …
§§
§
alla prof
… Anna Maria … Maddalena Luigina di Jacovo
grande insegnante di Sostegno alla
Scuola Giuseppe Ungaretti
di Grosseto …
e … ai miei amati alunni.
*






« Perché dunque incolparmi adesso, dell’avervi messo a parte delle mie ansietà, se mi ci spingesti e scongiurasti Tu stessa? Forseché, nel disperato e mortale sbaraglio in cui mi dibatto, sarebbe in tono, che voi intanto ve la godeste? O vorreste forse, adesso, esser soltanto campagne di gioie, e non anche, più, di dolore? rallegrarvi con gli allegri, sì, ma piangere coi piangenti, no? Tra i veri e i falsi amici non c’è maggior divario che dell’ associartisi i falsi, nella fortuna, ma, i veri, nella sventura ». (Abelardo ed Eloisa, Lettera V - Alla Sposa di Cristo il suo servo - A.F. Formiggini Editore, Roma 1927, pagg. 113 segg.).
Secondo Ferdinand de Sausurre « la materia della linguistica è costituita anzi¬tutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della “buona lingua”, ma delle espressioni d’ogni forma. Non è tutto: poiché il linguaggio sfugge piut¬tosto spesso all’osservazione, il linguista dovrà tenere conto dei testi scritti, i quali soli potranno fargli conoscere gli idiomi del passato o quelli -lontani.
Il compito della linguistica sarà a) fare la descrizione e la storia di tutte le lingue che potrà raggiungere, ciò che comporta fare la storia delle famiglie di lingue e ricostruire, nella misura del possibile, le lingue madri di ciascuna famiglia; b) cer¬care le forze che in modo permanente e universale sono in gioco in tutte le lingue, ed estrarre le leggi generali cui possono ricondursi tutti i particolari fenomeni della storia; e) delimitare e definire se stessa » (F. De Sausurre, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1979, pag. 15).
Osserva il Mounin {Guida alla linguistica, U.E. 626, Feltrinelli ed., Milano 1975, pagg. 19 segg.) che la « linguistica », intesa come lo studio scientifico del linguaggio umano, è « un insieme di conoscenze molto antico » e, nello stesso tempo, « una scienza assai recente », perché ha in realtà una lunga tradizio¬ne scientiflco-culturale alle spalle, anche se solo recentemente è stata clamorosa¬mente portata all’attenzione d’un vasto pubblico, grazie a recenti studi sociologici e psicologici sui sistemi linguistico espressivi.
Prima gli Indiani, poi i Greci ed .infine gli Arabi hanno posto le basi per un’ana¬lisi fonetica di notevole valore, anche se troppo trascurata per duemila anni.
Certamente, possiamo prendere come motivazione di base della nascita del linguaggio l’esigenza di comunicare impressioni ed informazioni nata dall’incontro di esseri dotati di sensibilità e, se vogliamo, d’intelligenza. Molto tardi si è svilup¬pata la scrittura. Per giungere a questa si è dovuto genialmente intuire che è pos¬sibile connettere ad altro segno-simbolo grafico-fisico un suono, ed infine un si¬gnificato convenzionale. Si è giunti per gradi a quei segni che ora chiamiamo « let¬tere », e che hanno la funzione di materializzare visibilmente dei suoni (fonemi).
I primi linguisti senza dubbio sono stati « gli uomini che hanno inventato e perfezionato la scrittura » (Meillet, in Mounin, op. cit.). Durante il Medio Evo, ac¬canto ad uno studio convenzionale e grammaticale, spiccano alcune intuizioni ori¬ginali e quasi anticipatrici di teorie ancora oggi attuali, come quelle di Dante, che esamineremo più oltre.
La riforma dell’ortografia, operata in tutta Europa e resa operante con l’inven¬zione della stampa, stimolerà lo studio della fonetica fino al secolo XVIII. Del XIV secolo sono le prime grammatiche delle lingue volgari. Guido Cavalcanti scrisse « una grammatica e un’arte del dire » sul volgare fiorentino (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Voi. I, pag. 56, Einaudi, 1958). Dal XVI secolo inizia lo stu¬dio delle lingue amerinde e nascono i primi dizionarì poliglotti. Si tentano le prime classificazioni linguistiche (Scaligero). Nel XVII e XVIII secolo la ricerca si esten¬de in ogni direzione: la fonetica progredisce con gli studi anatomici ed appas¬siona gli inventori delle stenografie e delle lingue artificiali, e gli educatori dei sordomuti.
: 38
Tuttavia resta insolubile il grosso problema dell’origine del linguaggio, malgrado le ipotesi proposte, tutte non sufficientemente attendibili o non verificabili, come quella dell’ebraico lingua madre. La scoperta del sanscrito, tra il 1786 e il 1816, segna una grande svolta in questo campo, Si dimostra, con una evidenza indiscu¬tibile, la parentela tra il latino, il greco, il sanscrito, le lingue .germaniche, slave e celtiche. Nasce, con i tentativi operati da Franz Bopp per ricostruire l’indoeuro¬peo nei suoi tratti essenziali, la grammatica comparata. Si prende spunto, para¬gonando fra loro i diversi linguaggi, dai metodi e dai principi delle scienze natu¬rali. Le lingue vengono assimilate ad organismi viventi: allo studio del linguaggio viene applicato, per quasi mezzo secolo, il metodo biologico.
Secondo i grammatici « naturalisti », come lo Schleicher, che era anche bota¬nico-naturalista, le lingue nascono, crescono e muoiono come qualsiasi organismo vivente. E la loro vecchiaia inizia dal momento in cui si codificano nella scrittura.
Dagli studi linguistici comparativi, si sviluppa la linguistica storica, che nasce dall’esigenza di paragonare fra loro fenomeni linguistici verificatisi attraverso stadi progressivi d’una stessa lingua. Così la grammatica comparata da origine al¬lo studio della incessante evoluzione delle lingue. Questa trasformazione è rea¬lizzata tra il 1876 ed il 1886 dalla scuola dei neogrammatici, a cui si deve la si¬stemazione rigorosa del fonetismo arioeuropeo.
La fonetica detiene in questa fase una importanza predominante: riesce a spie¬gare la quasi totalità dei mutamenti linguistici.
Ci si rivolge anche alla nuova scienza: la psicologia, per spiegare la dinamica di alcuni fenomeni generali.
La lingua, studiata storicamente, non è più considerata un’entità suscettibile d’un’analisi biologica, ma piuttosto un’istituzione umana. La linguistica diviene, perciò, una scienza storica, e non appartiene più alla sfera delle scienze naturali.
Una nuova impostazione al problema linguistico sarà data da Sausurre (1857-1913), che interpreterà il linguaggio come una istituzione sociale. Come già si è accennato, compito fondamentale della linguistica è, per il Sausurre, quello di descrivere il maggior numero possibile di lingue storico-naturali e famiglie di lin¬gue sia nella loro funzionalità in un dato momento, sia nel loro divenire attraverso il tempo (studio sincronico o diacronico - « langue » o « parole »), sia da un punto di vista interno, sia da uno psicosociologico, culturale, storico e, in generale, « esterno ».
La teoria del linguista svizzero, in pratica, rovesciò le impostazioni tradizionali della linguistica. Egli stabilisce che la prima tappa d’una scienza del linguaggio dev’essere lo studio del suo funzionamento, « hic et nunc », e non quello della sua evoluzione. La linguistica storica deve esser messa al secondo posto, da un punto di vista metodologico, rispetto ad una più importante linguistica descrittiva. È que¬sta la nota opposizione tra linguistica sincronica e linguistica diacronica.
Lo sforzo di comprendere il funzionamento puro del linguaggio come istituzio¬ne sociale, qui e adesso, conduce il Sausurre a mettere l’accento sulla nozione di sistema. Questo, per lui, è quasi sinonimo di codice. Così « segno », per lui, non è più sinonimo di parola, termine troppo generico, e la nozione di « catena par¬lata » diviene prioritaria rispetto a quella di « frase ». Il termine che Sausurre usa in questo campo è quello di « unità ». Egli vuole individuare le unità reali che compongono la catena parlata. Gli strumenti che propone per studiare le unità di codice che costituiscono i messaggi, sono analisi strutturali. Per questo, con lui, ha inizio il cosiddetto « strutturalismo ». ‘
La lingua, per il fondatore della moderna linguistica strutturale, « è il patri¬monio collettivo delle forme foniche “significanti”, univocamente combinate con i relativi “significati”. Questo’patrimonio di segni è organizzato in “sistema”, in quanto ciascuno di essi deve la sua esistenza al fatto di entrare in certi rap¬porti con gli altri.
La “funzionalità” del sistema — ciò che lo rende uno strumento atto a funzio¬nare nei singoli atti di “parola” — è costituita appunto dalle opposizioni e corre¬lazioni intercorrenti tra i singoli elementi, i quali risultano individuati dai loro rap¬porti differenziali nei confronti degli elementi similari, piuttosto che dalle loro caratteristiche positive » (R. D’Avino, Introduzione a un corso di Storia Comparata …
delle lingue classiche, Kappa Ed., Roma 1967, pagg. 13 segg.). Quindi, per com¬prendere veramente un termine, non si può isolarlo dal sistema di cui fa parte
In tal modo il linguista svizzero anticipa i risultati e le scoperte dovute agli studi di antropologia culturale, che vedono la lingua non come legata ad una struttura oggettiva di cose, ma come creatrice di tali strutture, in funzione dei bi¬sogni della società che la pone e la mantiene in essere.
La lingua ha infatti la capacità di discriminare l’esperienza in significati e di organizzare le fonìe o le loro rappresentazioni grafiche in significanti.
Sausurre distingue, all’interno del fenomeno linguistico, un aspetto « oggettivo » costante, la « langue », ed un aspetto « soggettivo », individuabile, espressivo, la « parole ».
La « parole » è l’uso che ciascun parlante fa del patrimonio linguistico espres¬sivo comune (« langue »).
L’opposizione fra « langue » e « parole » si può interpretare come quella fra sistema astratto e sue singole manifestazioni materiali. Quella fra paradigmatica e sintagmatica si può interpretare in termini di codice e messaggio; ad essa molti fanno corrispóndere una distinzione terminologica fra struttura (sintagmatica) e sistema (paradigmatica). (G.C. Lepschy, La linguistica strutturale, P.B. Einaudi, Torino 1966, pag. 31).
I principali agenti del mutamento linguistico vengono individuati nei fenomeni dell’alternanza, dell’ analogia e dell’agglutinazione.
Dopo Sausurre, lo strutturalismo ha assunto varie tendenze:
Strutturalismo ontologico (Chomsky): concepisce, antistoricamente e naturali¬sticamente, le strutture sociolinguistichre come prodotto delle doti biologiche
contenute nell’uomo, nella sua natura, e quindi le ritiene « innate ».
Strutturalismo. storicizzante: riconosce nelle strutture un prodotto storicamente e tem¬poralmente circoscritto dell’agire umano. Lo strutturalismo praghese (Jakobson e Trubeckoj) è stato ontologico e storicizzante.
Strutturalismo metodologico: concepisce le strutture solo come sistemi utili alla pre¬
sentazione ed alla catalogaziene dei fenomeni.
Strutturalismo. epistemologico: nel riconoscimento del carattere strutturato d’un campo d’esperienza vede una necessità non derogabile della conoscenza umana.
Lo strutturalismo americano è stato soprattutto uno strutturalismo metodolo¬gico. Bloomfield, Harris, Hockett ed Hall ne sono i maggiori esponenti.
Poiché la lingua è un organismo in evoluzione, ci si offre la possibilità di un suo studio diacronico che ne colga l’evolversi temporale.
Sausurre privilegia però, come si è già detto, un secondo tipo di analisi del fenomeno linguistico, basato sullo studio della lingua in un determinato momento storico, così da descriverne il meccanismo ed i rapporti esistenti fra gli elementi che ne costituiscono il sistema. Così, pur ponendo in evidenza l’arbitrarietà del linguaggio, afferma che tale caratteristica è limitata e disciplinata daìla organicità del sistema.
Tutto il sistema della lingua poggia sul principio irrazionale dell’arbitrarietà del segno, per cui il significato viene unito al significante non per una precisa legge naturale, ma in base a criteri « arbitrari » scelti dal parlante.
Questo principio, applicato senza restrizione, porterebbe alla massima con¬fusione.
Lo spirito riesce ad introdurre un principio d’ordine e di regolarità in certe parti della massa dei segni, ed è in ciò il ruolo del relativamente motivato. (F. De Sausurre, Corso di Linguistica Generale, Laterza, Bari 1972, pag. 159).
Solo una parte dei segni è assolutamente arbitraria. Presso altri interviene, in¬vece, una serie di rapporti che ne limitano l’arbitrarietà, lasciando il posto ad una motivazione, che resta, comunque, pur sempre parziale.
Questi rapporti che determinano il significato arbitrario dei segni sono detti paradigmatici (o « associativi »), in quanto definiscono o precisano il significato all’interno di una medesima serie (insegnare, insegnamentp, indottrinamento etc.). Sono rapporti in absentia.
Altri rapporti, però, contribuiscono a definire il significato di un segno, e sono i rapporti sintagmatici. Vale a dire quelli che intercorrono fra una parola e quelle che seguono o precedono nella frase.
Il valore della parola dipende, perciò, anche da quello delle parole che la cir¬condano nella catena parlata. Si tratta, quindi, di rapporti in praesentia.
Lo studio sistematico di ogni unità minima, di tutte le sue possibili associa¬zioni oppositive (paradigmatiche) o dei vari rapporti sintagmatici, coincide con una considerazione « sincronica » della lingua.
Questo si traduce in una « linguistica statica » che descrive un particolare stato della lingua. Questa per Sausurre è la « grammatica ».
Tale concetto supera la grammatica normativa tradizionale, basata su rigorose classificazioni delle parole (le « parti » del discorso). Si arriva ad una visione glo¬bale, sistematica e funzionale del fatto linguistico. La « morfologia » si fonde con la « sintassi » e con lo studio lessicologico. Anziché partire dagli elementi lingui¬stici, si parte dal sistema, avendo come fine la scoperta di come funzioni e si realizzi nei singoli atti del parlante. Dopo le feconde e geniali intuizioni di Sau¬surre, — scrive G.C. Lepschy (La linguistica strutturale, Einaudi 1966, pagg. 37-39) — le tendenze strutturalistiche si possono caratterizzare sommariamente co¬me segue, in base alle loro linee direttive teoriche.
La Scuola di Praga, e più recentemente A. Martinet, per il loro insistere sui valori funzionali della struttura linguistica e dei veri elementi di cui la struttu¬ra si compone.
La Scuola di Copenaghen, e in particolare la glossematica di L. Hjemslev, per il suo insistere sul carattere astratto del sistema linguistico, in base al quale van¬no interpretate le singole manifestazioni materiali.
La linguistica americana, in particolare postbloomfieldiana per il suo carattere tassonomico, per il suo basarsi cioè su processi di segmentazione (del continuum, dell’enunciato in elementi minori di cui esso è composto) e di classificazione di tali elementi in base alle loro proprietà distribuzionali (in base cioè alle possibilità che tali elementi hanno di combinarsi fra loro, formando unità di ordine superiore sempre più complesse).









Le teorie generative, in particolare di Chomsky, elaborate a partire dalle diffi¬coltà contro cui si scontrava l’analisi linguistica tassonomica, introducono nel modello linguistico da esse elaborato, delle regole che consentono di generare (tutte e solo) le proposizioni ammesse in una certa lingua; si introducono in parti¬colare delle regole di trasformazione che consentono di generare intere categorie di proposizioni a partire da altre categorie di proposizioni basilari (la cui struttura viene stabilita attraverso procedimenti tassonomici).
La grammatica generativa trasformazionale è composta da un blocco o com¬ponente centrale sintattico (un calcolo, come si direbbe con termini della logica moderna); da un lato questo è soggetto a un’interpretazione semantica (il compo¬nente semantico è quello che attualmente richiede maggior elaborazione); dall’al¬tro, le « stringhe » finali che esso produce vengono, attraverso le regole del com-ponente fonologico, materializzate nella catena parlata, nei messaggi fonetici che noi percepiamo. Una posizione centrale hanno le teorie di Jakobson e più recente¬mente di Halle, secondo cui nel componente fonologico ci si serve di un inventario di dodici «tratti distintivi binari » che costituiscono veri universali linguistici, co¬muni a qualunque lingua.






Noam Avram Chomsky porta i dati e le intuizioni di Sausurre a livelli decisa¬mente rivoluzionari. La linguistica, con lui, abbandona ogni finalità semplicemente classificatoria (linguistica tassonomica) per interessarsi soprattutto di ricostruire modelli ipotetici espliciti delle lingue, destinati a chiarire i dati linguistici osser¬vabili. Con lui ci si avvia verso una vera concezione teorica della linguistica, già abbozzata dagli strutturalisti.
Il linguista americano, che ricerca le forme della realtà profonda del linguaggio, reinterpreta la distinzione sausurriana di « langue » e « parole » nei termini di « competenza » (la conoscenza implicita, e non conscia, che il parlante ha della propria lingua) e di « esecuzione » (le frasi che il parlante produce realmente, nelle quali si manifesta la sua competenza), e si propone di definire la compe¬tenza linguistica, cioè, come egli scrive. « // sistema astratto di regole che sotto¬sta al comportamento verbale di ciascun parlante ». Chi parla una lingua può pro¬durre, e comprendere, un numero pressoché illimitato di frasi, la maggior parte delle quali non sono mai apparse prima, e, molto verosimilmente, non riappari¬ranno più.
Ogni parlante « reinventa » la lingua. Di questo aspetto creativo del linguaggio umano, fondamentale per Chomsky, non darebbe certo ragione una indagine che si rivolgesse all’esecuzione — cioè a un corpo di.testi necessariamente finito —, per estrarne, induttivamente, il sistema di regole che lo governano.
Del resto, come ricorda l’esperienza della scienza contemporanea, la raccolta, l’osservazione e la classificazione dei dati non ci garantiscono alcuna generalizza¬zione scientificamente valida, che possa cioè prevedere i nuovi fatti, oltre a fornire una descrizione plausibile di quelli già noti. La formulazione di una teoria scientifica comporta sempre un rischio. Essa viene costruita servendosi di un numero limi¬tato di esperienze, e quindi verificata nei fatti, che hanno la funzione di farla respin¬gere o accettare (« i dati dell’osservazione sono interessanti nella misura in cui hanno una incidenza sulla scelta fra due teorie rivali », scrive Chomsky). A questi principi s’attiene il linguista, allorché cerca di specificare le regole che governano la competenza lingusitica, elaborando alcuni modelli ipotetici (grammatiche), e confrontandoli quindi con i fatti linguistici reali, che decideranno quale sia il più adeguato.
A differenza degli strutturalisti europei, Chomsky non parte dalle unità minime della lingua, ma dalla frase. Il compito di uria grammatica risiede nella capacità di enumerare tutte le frasi incontestabilmente grammaticali della lingua data, esclu¬dendo, per converso, quelle pure incontestabilmente non grammaticali (V. Boarini -P. Benfiglieli, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna 1976, pagg. 666 segg.).
In questo modo il fatto centrale nello studio del fenomeno linguistico è la in¬nata capacità che ha ogni parlante di produrre e di comprendere un numero gran¬dissimo di frasi, anche se non le ha mai prima d’allora ascoltate né pronunciate. Questa capacità produttiva e decodificatoria nell’ambito linguistico, la chiama dunque « competenza (linguìstica) » (= conoscenza implicita che ogni parlante ha della propria lingua). Tale sistema mentale di regole e norme linguisticamente ope-ranti è codificato nella « grammatica ».
Chomsky tende a ridurre i modelli linguistici ad un insieme di regole meccanica¬mente applicabili sotto la forma di un algoritmo (procedimento sistematico che consente di pervenire al risultato desiderato con una bene determinata succes¬sione di operazioni eseguite secondo regole precise).
Abbandonando la pretesa di emettere giudizi inconfutabili sulle reali regole usate dal parlante nella produzione linguistica, la grammatica generativa cerca in sostanza di adeguarsi, cercando di definirne i meccanismi, alla realtà sottostante il comportamento effettivo dei parlanti. Così diventa una branca della psicologia.
Si cerca pertanto di ricostruire ipoteticamente e scientificamente la struttura di un meccanismo che ogni bambino ha riprodotto appropriandosi di un linguaggio in un determinato ambiente.
Questo meccanismo deve essere molto sistematico e ben coordinato, operante secondo schemi omogenei, se è vero che bambini di 2-3 anni sono già in grado di appropriarsene. Insomma, una grammatica è un meccanismo capace, pur essen¬do finito, di generare un insieme infinito di frasi grammaticali.
Il modello linguistico di base di cui Chomsky si serve per visualizzare i rapporti esistenti fra i costituenti (parole) della frase, è il « phrase marker » (indicatore della frase). Questo è anche definito « indicatore sintagmatico », in quanto scom¬pone la-frase in gruppi sintagmatici,- ossia in gruppi di parole che hanno un con¬tenuto unitario, e all’interno di ogni sintagma specifica le categorie (nome, articol et cetera) e le funzioni (soggetto, predicato etc.).
Il costituente più elevato è la frase.
Ad esempio:
l’uomo colpisce la palla
Una prima divisione comporta una prima distinzione fra due sintagmi. Il sintagma o gruppo nominale (GN] « l’uomo », forma¬to da articolo (o determinante) e nome, ed il sintagma o gruppo verbale « colpisce la palla ». Quest’ultimo può essere diviso ancora in altri costituenti: il verbo, « col¬pisce », ed il secondo gruppo (o « sintagma ») nominale (GN) « la palla ».
I due GN possono essere scomposti neMoro costituenti ultimi (parole, « mor¬femi » o, per Martinet, monemi, ossia unità linguistiche minime dotate di signi¬ficato):
l’uomo = GN (o SN) = Art (o Determ.) + N (sogg. = GN 1) la palla = GN - Art + N (compi, ogg. = GN 2)
La « formula » della frase semplice è, quindi, la seguente: Fs = GN + GV.
Mediante l’applicazione d’una serie di « regole di riscrittura » si giunge ai costi¬tuenti terminali:
GN + GV Art + N + GV Art + N + Verbo + GN + N + Verbo + GN + uomo + Verbo + GN + uomo + colpisce + Art + N + uomo + colpisce + la + N + uomo + colpisce + la + palla
(E. Cavallini Bernacchi, l’insegnamento della lingua, II Punto-emme edizioni, Mi¬lano 1975, pag. 84 e N. Chomsky, Le strutture della sintassi, U. Laterza, Bari 1974, pag. 36).
(Nota: le « regole di riscrittura » hanno la forma generale X—>Y, da interpre¬tarsi come « si riscriva X come Y ». Per es. F—» SN + SV (Frase = Sintagma (o Gruppo) Nominale + Sintagma Verbale).
Questo sistema permette — cosa che si nota facilmente — di visualizzare an¬che le differenze di struttura che possono generare ambiguità in frasi apparente¬mente simili.
Esaminiamo la frase seguente:
1. una vecchia
porta la sbarra
2. una vecchia porta
la sbarra
L’ambiguità è generata dal modo in cui si intende il monema « porta »: Nome
oppure Verbo. :
Nel primo caso la stringa categoriale sarà A + N + V + A + N.
Nel secondo sarà: A + Agg. + N + Pron. + V.
Ma esistono frasi che restano ambigue anche dopo un’analisi sintagmatica strut-turale di questo tipo.
Per esempio, la frase « il maestro spaventa il bambino » è ambigua, perché può essere assunta sia nel senso che il maestro compie qualche azione che spaventa il bambino, sia nel senso che il bambino si spaventa alla sem¬plice vista del maestro.
Nei due casi è diversa la relazione tra « il maestro » e « spaventa ». La gramma¬tica sintagmatica non è in grado di distinguere strutturalmente le due interpreta-zioni.
La grammatica sintagmatica non sa render conto delle relazioni intuitive fra una frase attiva e la corrispondente negativa, interrogativa o passiva.
IL TRASFORMAZIONALISMO
Per questo motivo Chomsky introduce le regole « trasformazionali ». La sua grammatica è detta perciò « generativo-trasformazionale ». In questa grammatica, ad una prima analisi « sintagmatica », che visualizza le strutture profonde delle frasi, segue una seconda analisi che chiarifica le regole di trasformazione, determinando la struttura superficiale delle frasi, che coincide con la forma finale degli enunciati.
Per esempio, alla struttura profonda « io ordino a te tu vieni » operano le trasformazioni che la mutano in:
« ti ordino di venire » .
La grammatica sintagmatica analizza solo la frase-base.
Costruito il primo indicatore sintagmatico, si può procedere all’applicazione di ogni possibile trasformazione:
ti ordino di venire?
Ti ordino di venire!
Vieni! … te lo ordino
Da parte mia ti si ordina di venire
Io … ordinarti di venire !…
(interrogativa, esclamativa ed imperativa; negativa, passiva ed enfatica).
La frase-base è « dichiarativa ».
Le posizioni della grammatica generativo trasformazionale, come osserva la Bernacchi, sono, implicamente, un’accusa continua ai fini ed ai metodi delle gram¬matiche tradizionali. Mentre quest’ultime (ch£ si identificano in genere con quelle scolastiche) si preoccupano di fornire al parlante un insieme di regole che rendano corretto ed ortodosso il suo uso linguistico, le grammatiche generative assumono che le regolarità della lingua siano già implicitamente possedute dal parlante, alla cui competenza, anzi, fanno continuo ricorso per valutare il loro grado di ade¬guatezza.
Il fine di tali grammatiche, quindi, non è di fornire le regole della lingua, ma di scoprirle deducendole dagli usi linguistici concreti. Esse si propongono non di « in¬segnare la lingua », bensì di indagare sui processi mentali che regolano l’acquisizio¬ne e l’uso delle lingue, cioè di formulare un sistema di norme che permetta la for¬mazione di tutte le possibili frasi grammaticali ed escluda invece quelle non grammaticali.
Non hanno dunque intenti didattici, ma scientifici. Loro scopo, come si è accen¬nato, è la costruzione di una teoria del linguaggio.
Per questo, tali grammatiche rifiutano ogni atteggiamento di infallibilità e di incontestabilità, prerogativa delle grammatiche tradizionali. In questo senso, pur senza assumere fini didattici, le grammatiche generative contengono fondamentali fermenti didattici. Le « regole » grammaticali si rivelano inutili in un doppio senso: da un lato perché l’insegnante dovrebbe abituarsi a non spiegare ai propri alunni i fenomeni della lingua, ma a cercarne invece insieme a loro diverse possibili spie¬gazioni; dall’altro perché ciascuno impara a parlare correttamente da” sé, purché venga esposto all’emissione di enunciati corretti, e purché non gli sì crei la paura di sbagliare.
In questo senso uno dei fondamentali compiti dell’insegnante riguardo all’ap¬prendimento linguistico resta quello di riprodurre e di incrementare la situazione naturale di conversazione, di scambio verbale spontaneo attraverso cui ogni bambino, senza che gli vengano insegnate regole, impara a parlare.
Sì tratterà poi, in diversi gradi a seconda del livello scolastico o delle fasce di
livello all’interno di una classe medesima, di prendere spunto da questi atti di co¬
municazione per avviare riflessioni sistematiche sulle caratteristiche dell’uso lin¬
guistico, così da rendere ciascuno il più possibile consapevole delle caratteri¬
stiche, della natura e delle possibilità dello strumento linguistico (E.C. Bernacchi,
pagg. 90-91).
§
:
DANTE PRECURSORE DELLA MODERNA LINGUISTICA
Intuizioni dantesche di chiarissima.attualità sono la considerazione del linguaggio come «forma» e del « segno » come « libero »; il riconoscimento del divenire delle .lingue e della sto¬ricità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di « lingua » come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come ten¬denza cosciente all’unificazione, che si attua attraverso il magistero dell’arte e il prestigio e l’azione del potere politico.
Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illu-strdu ud Antonino Pagliaro (A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dot¬trina linguistica dì Dante, Editore G. D’Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.).
Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell’uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente.
La parola è per lui il « segno fonico », come noi l’intendiamo, « rationale et sen¬suale » (De Vulgari Eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perche gli uomini ve lo attribuiscono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idetuz ad placitum » (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcun¬ché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento) (Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b).






” Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ra¬gione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d’altra parte riferire da una ragione all’altra se non per mezzo sensibile, fu neces¬sariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall’uno all’altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare » (De V.E. I, III, 2).
Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione. Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell’arbitrarietà del segno lin¬guistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni va¬riamente organizzati. Tale arbitrarietà (« aliqujs significare ad placitum ») è lega¬ta da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che ob¬bediscono all’istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emo¬tive (« per proprios actus vel passiones » — per mezzo dei suoi propri atti o pas¬sioni — De V.E,, I, III, 1).
La facoltà di connettere suono e significato è data all’uomo da natura, ma l’at¬tuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della li¬bertà che è inerente alla loro « ratio »:
« Opera naturale è ch’uom favella;
ma, così o così, natura lascia
poi fare a voi, secondo che v’abbella » (Paradiso XXVI, 130-132).
A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse.
Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e ori¬ginale.
Gli uomini che erano intenti alla costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni.
« Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medésima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quante erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano » (De V.E. I, VII, 7). Dante individua nel bisogno di comu¬nicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.
47 Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria « sinergastica »’(greco: siunergàzomai = lavoro insieme) dell’origine delle lingue.
Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama « idioma tripharium » come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.
Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell’uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale.
E nello stesso modo in cui ha intuito l’unità sostanziale dell’idioma tripharium, di cui la « lingua del sì », la « lingua d’oil » e la « lingua d’oc » sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della « lingua del sì » alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comu¬nione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della « lingua » nel senso « storico » della parola.
« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane. E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d’Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede » (De V.E. I, XVI, 3-4). È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità.
Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva”intuito, che l’affermarsi di una lingua co¬mune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, poli¬tiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il pre¬stigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l’italiano, per il francese, per il tedesco.
Ma Dante non ci trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l’avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche.
Se l’italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali. •• primissima signa », il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l’adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall’uso corretto della lingua.
Appare chiaro come Dante veda nell’unificazione linguistica un’opera di crea¬zione nazionale e popolare collettiva, ed un’opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell’Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell’appoggio d’un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all’uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.







Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine lingui¬stiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come « forma » (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del « segno » come « libero » (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto -linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di « lingua » come « co¬munione linguistica » nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all’unificazione, che si attua attraverso il magistero dell’Arte e il prestigio e l’azione del potere politico.






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Gennaro di Jacovo
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sabato 4 agosto 2012
Edvige e Anna Maria






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Gennaro di jacovo
58100 grosseto
Avvocato Bruno Leporatti Vico del Duomo 58100 Grosseto
Dottor Silvia Batignani Via Bolzano 58100 Grosseto Giudice Maria Navarro Procura Grosseto
Avvocato carissimo, egregia Dottoressa …
a) X avv.to: allegati alla presente troverà sei certificazioni da cui emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e non necessariamente per volontà della stessa, e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni, anche a causa della sottovalutazione delle sue condizioni e della inspiegabilmente mancata e tempestiva richiesta della condizione di invalida con necessità di accompagnamento, e della famiglia di origine, presa ut ita dicam dalle proprie preoccupazione ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente ufficiosa allettata di propria iniziativa, senza alcun sostegno e di alcun genere da parte dei ‘parenti’ e specie del fratello (!), badando con il mio solo aiuto a ogni esigenza e a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché per una colite ulcerosa a mio avviso sottovalutata o non controllata con adeguate colonscopie a primo livello di medicina basica, ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate durante l’intervento dei chirurghi nel dimensionamento del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali, come l’encefalo.
L’ analisi, di cui si trova altra accezione e più ampia in Polibio, a cui dovrebbe essere sottoposta la cara Edvige è l’esame di una persona che per propria volontà si era ritirata in camera da letto da quattro anni, dopo avere rinunciato alle proprietà a beneficio dei figli, su iniziativa del figlio maggiore, che aveva beneficiato persino di tutte le spese notarili, come risulta dalla cedola di assegno circolare 3703117659 dell’ 8 marzo 1999 di lire 13.000.000 a favore del notaio Ciampolini Bardassarri, in occasione della stipula dell’atto notarile (5 3 99 reg in GR il 24 3 99 rep 143631 racc 34774, con cui Edvige divideva le sue sostanze ai figli.
Questo, a mio avviso prematuramente e quasi improvvidamente perché con questo gesto praticamente si impoveriva conservando solo l’usufrutto vitalizio, per mia iniziativa, sulla casa assegnata alla Figlia Anna, che si assumeva l’onere d’una casa ‘vecchia’ e d’una Madre bisognosa da sempre di assistenza nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed ‘economiche’, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare a tratti le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano (qui è stato necessario ripristinare l’impianto idrico ostruito a causa della mancata utilizzazione), ove è sepolta, e per ora poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
*
La stessa dottoressa Batignani e il cardiologo d’Alonzo sollecitavano invano Edvige a movimentarsi, provvedendo a periodici controlli del suo stato di salute.
Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ‘comoda’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, specie alle gambe delicatissime ma non ferite, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che ieri insieme abbiamo ricevuto l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta, ma che invece, grazie alla Scuola, alla Famiglia (sua) ed alla premura sanitaria specie di base, corro il rischio di essere come spesso Secondo …
Non ho mai avuto motivo di fare altro che cucinare, pulire, coadiuvare nell’espletamento dei bisogni corporali, lavare, riassettare e roba del genere con mia Suocera, ma so una cosa, che il 20 giugno, dopo una serie di telefonate sgarbate e violente con Anna Maria, che rimase assai scossa, mio cognato, ex preside dell’Istituto agrario per breve periodo, scuola ove personalmente ho assistito a poco edificanti esibizioni di antididattica (la vicenda di Alessandra Serenari, quella di Rispescia e dell’uso atipico degli impianti igienici e altre di questo tipo amenità agrofile) figlio di Edvige, volle parlare al tramonto da solo con Edvige.
Li sentii ‘conversare’ e poi discutere animatamente … Edvige disse … stai alla larga o rovinerai la Famiglia … poi lui andò via facendo spostare la sponda del letto dopo aver urtato il comodino.
La Famiglia non è ancora sfasciata.
Nonostante le conversazioni pessimistiche che il cognato fa ogni tanto la sera, quando verso le 22.00 viene a visitare Anna in rianimazione.
Non posso che guardare con preoccupazione e angoscia a queste visite da una parte di una persona che la Madre aveva invitato a ‘stare alla larga’ dal nostro nucleo familiare, perché rappresentava una sorta di minaccia per tutto il nostro nucleo familiare formato da Edvige, Anna Maria e me.
Nelle sue rare visite notturne il soggetto, che personalmente ritengo responsabile morale dello stato di preoccupazione costante nei suoi confronti che caratterizzava Anna Maria, non parla con i medici, con cui forse ha altri contatti, ma con me, ripetendo luoghi comuni di bassa qualità sull’operato dei medici, profezie tetre sul decorso della malattia e sinistre previsioni di vario genere.
Conversazioni simili a quelle assai deprimenti che faceva durante le sue rare visite ad Edvige e Anna, quando parlava di pavimenti rotti, finestre rotte, della sua attività di amministratore delle case della moglie, di malattie e di licenziamenti.
Parlare di tali cose ingenera angoscia in chi non può muoversi liberamente.
Anna Maria Maddalena Luigina Vittori sarà sempre la mia prof e il mio Sostegno …
Grosseto, 24 7 2012
gennaro di jacovo
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Repetita juvant … : Dalle certificazioni mediche emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli … mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni e della famiglia di origine, presa naturalmente dalle proprie occupazioni ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente allettata di propria iniziativa, badando a ogni esigenza a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate dai chirurghi nella soppressione del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali.
Edvige per propria volontà si era rifugiata in camera da letto da quattro anni, nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed economiche, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano, ove è sepolta, e poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
*
Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ‘sedia a braccioli’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
In definitiva, Edvige, che mi voleva bene ‘assai’ , è stata trattata male, o non trattata affatto, da troppe istituzioni e parenti per poter dire ora che a maltrattarla sia stato il genero.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che Anna Maria, mia Moglie, la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che insieme abbiamo ricevuto da Padre Carmelo l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta …
So anche che grazie alla gentilezza di tutto il Personale dell’efficientissimo Reparto, il cui Primario è il prof Roberto Madonna, ho potuto parlare ore e ore con Anna … che si sta svegliando pianino pianino, come dice lei …
Ieri ho anche incontrato Padre Carmelo e gli ho ritrovato il borsello che aveva perso … questa volta per ricompensa ho chiesto una benedizione normalissima per me e Anna, che è migliorata, con l’aiuto di Dio e della Medicina …
Grosseto, 4 agosto 2012
gennaro di jacovo
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Pubblicato da Gennaro di Jacovo a 00:33
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venerdì, 10 agosto 2012
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Gennaro di Jacovo
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sabato 4 agosto 2012
Edvige e Anna Maria






§
§§
§§§
Gennaro di jacovo
58100 grosseto
Avvocato Bruno Leporatti Vico del Duomo 58100 Grosseto
Dottor Silvia Batignani Via Bolzano 58100 Grosseto Giudice Maria Navarro Procura Grosseto
Avvocato carissimo, egregia Dottoressa …
a) X avv.to: allegati alla presente troverà sei certificazioni da cui emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e non necessariamente per volontà della stessa, e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni, anche a causa della sottovalutazione delle sue condizioni e della inspiegabilmente mancata e tempestiva richiesta della condizione di invalida con necessità di accompagnamento, e della famiglia di origine, presa ut ita dicam dalle proprie preoccupazione ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente ufficiosa allettata di propria iniziativa, senza alcun sostegno e di alcun genere da parte dei ‘parenti’ e specie del fratello (!), badando con il mio solo aiuto a ogni esigenza e a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché per una colite ulcerosa a mio avviso sottovalutata o non controllata con adeguate colonscopie a primo livello di medicina basica, ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate durante l’intervento dei chirurghi nel dimensionamento del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali, come l’encefalo.
L’ analisi, di cui si trova altra accezione e più ampia in Polibio, a cui dovrebbe essere sottoposta la cara Edvige è l’esame di una persona che per propria volontà si era ritirata in camera da letto da quattro anni, dopo avere rinunciato alle proprietà a beneficio dei figli, su iniziativa del figlio maggiore, che aveva beneficiato persino di tutte le spese notarili, come risulta dalla cedola di assegno circolare 3703117659 dell’ 8 marzo 1999 di lire 13.000.000 a favore del notaio Ciampolini Bardassarri, in occasione della stipula dell’atto notarile (5 3 99 reg in GR il 24 3 99 rep 143631 racc 34774, con cui Edvige divideva le sue sostanze ai figli.
Questo, a mio avviso prematuramente e quasi improvvidamente perché con questo gesto praticamente si impoveriva conservando solo l’usufrutto vitalizio, per mia iniziativa, sulla casa assegnata alla Figlia Anna, che si assumeva l’onere d’una casa ‘vecchia’ e d’una Madre bisognosa da sempre di assistenza nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed ‘economiche’, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare a tratti le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano (qui è stato necessario ripristinare l’impianto idrico ostruito a causa della mancata utilizzazione), ove è sepolta, e per ora poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
*
La stessa dottoressa Batignani e il cardiologo d’Alonzo sollecitavano invano Edvige a movimentarsi, provvedendo a periodici controlli del suo stato di salute.
Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ‘comoda’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, specie alle gambe delicatissime ma non ferite, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che ieri insieme abbiamo ricevuto l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta, ma che invece, grazie alla Scuola, alla Famiglia (sua) ed alla premura sanitaria specie di base, corro il rischio di essere come spesso Secondo …
Non ho mai avuto motivo di fare altro che cucinare, pulire, coadiuvare nell’espletamento dei bisogni corporali, lavare, riassettare e roba del genere con mia Suocera, ma so una cosa, che il 20 giugno, dopo una serie di telefonate sgarbate e violente con Anna Maria, che rimase assai scossa, mio cognato, ex preside dell’Istituto agrario per breve periodo, scuola ove personalmente ho assistito a poco edificanti esibizioni di antididattica (la vicenda di Alessandra Serenari, quella di Rispescia e dell’uso atipico degli impianti igienici e altre di questo tipo amenità agrofile) figlio di Edvige, volle parlare al tramonto da solo con Edvige.
Li sentii ‘conversare’ e poi discutere animatamente … Edvige disse … stai alla larga o rovinerai la Famiglia … poi lui andò via facendo spostare la sponda del letto dopo aver urtato il comodino.
La Famiglia non è ancora sfasciata.
Nonostante le conversazioni pessimistiche che il cognato fa ogni tanto la sera, quando verso le 22.00 viene a visitare Anna in rianimazione.
Non posso che guardare con preoccupazione e angoscia a queste visite da una parte di una persona che la Madre aveva invitato a ‘stare alla larga’ dal nostro nucleo familiare, perché rappresentava una sorta di minaccia per tutto il nostro nucleo familiare formato da Edvige, Anna Maria e me.
Nelle sue rare visite notturne il soggetto, che personalmente ritengo responsabile morale dello stato di preoccupazione costante nei suoi confronti che caratterizzava Anna Maria, non parla con i medici, con cui forse ha altri contatti, ma con me, ripetendo luoghi comuni di bassa qualità sull’operato dei medici, profezie tetre sul decorso della malattia e sinistre previsioni di vario genere.
Conversazioni simili a quelle assai deprimenti che faceva durante le sue rare visite ad Edvige e Anna, quando parlava di pavimenti rotti, finestre rotte, della sua attività di amministratore delle case della moglie, di malattie e di licenziamenti.
Parlare di tali cose ingenera angoscia in chi non può muoversi liberamente.
Anna Maria Maddalena Luigina Vittori sarà sempre la mia prof e il mio Sostegno …
Grosseto, 24 7 2012
gennaro di jacovo
§§§
§§
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Repetita juvant … : Dalle certificazioni mediche emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli … mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni e della famiglia di origine, presa naturalmente dalle proprie occupazioni ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente allettata di propria iniziativa, badando a ogni esigenza a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate dai chirurghi nella soppressione del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali.
Edvige per propria volontà si era rifugiata in camera da letto da quattro anni, nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed economiche, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano, ove è sepolta, e poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
*
Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ‘sedia a braccioli’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
In definitiva, Edvige, che mi voleva bene ‘assai’ , è stata trattata male, o non trattata affatto, da troppe istituzioni e parenti per poter dire ora che a maltrattarla sia stato il genero.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che Anna Maria, mia Moglie, la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che insieme abbiamo ricevuto da Padre Carmelo l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta …
So anche che grazie alla gentilezza di tutto il Personale dell’efficientissimo Reparto, il cui Primario è il prof Roberto Madonna, ho potuto parlare ore e ore con Anna … che si sta svegliando pianino pianino, come dice lei …
Ieri ho anche incontrato Padre Carmelo e gli ho ritrovato il borsello che aveva perso … questa volta per ricompensa ho chiesto una benedizione normalissima per me e Anna, che è migliorata, con l’aiuto di Dio e della Medicina …
Grosseto, 4 agosto 2012
gennaro di jacovo
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Pubblicato da Gennaro di Jacovo a 00:33
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Dottor Silvia Batignani Via Bolzano 58100 Grosseto Giudice Maria Navarro Procura Grosseto
Avvocato carissimo, egregia Dottoressa …
a) X avv.to: allegati alla presente troverà sei certificazioni da cui emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e non necessariamente per volontà della stessa, e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni, anche a causa della sottovalutazione delle sue condizioni e della inspiegabilmente mancata e tempestiva richiesta della condizione di invalida con necessità di accompagnamento, e della famiglia di origine, presa ut ita dicam dalle proprie preoccupazione ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente ufficiosa allettata di propria iniziativa, senza alcun sostegno e di alcun genere da parte dei ‘parenti’ e specie del fratello (!), badando con il mio solo aiuto a ogni esigenza e a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché per una colite ulcerosa a mio avviso sottovalutata o non controllata con adeguate colonscopie a primo livello di medicina basica, ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate dall’intervento dei chirurghi nel dimensionamento del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali, come l’encefalo.
L’ analisi, di cui si trova altra accezione e più ampia in Polibio, a cui dovrebbe essere sottoposta la cara Edvige è l’esame di una persona che per propria volontà si era ritirata in camera da letto da quattro anni, dopo avere rinunciato alle proprietà a beneficio dei figli, su iniziativa del figlio maggiore, che aveva beneficiato persino di tutte le spese notarili, come risulta dalla cedola di assegno circolare 3703117659 dell’ 8 marzo 1999 di lire 13.000.000 a favore del notaio Ciampolini Bardassarri, in occasione della stipula dell’atto notarile (5 3 99 reg in GR il 24 3 99 rep 143631 racc 34774, con cui Edvige divideva le sue sostanze ai figli.
Questo, a mio avviso prematuramente e quasi improvvidamente perché con questo gesto praticamente si impoveriva conservando solo l’usufrutto vitalizio, per mia iniziativa, sulla casa assegnata alla Figlia Anna, che si assumeva l’onere d’una casa ‘vecchia’ e d’una Madre bisognosa da sempre di assistenza nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed ‘economiche’, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare a tratti le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano (qui è stato necessario ripristinare l’impianto idrico ostruito a causa della mancata utilizzazione), ove è sepolta, e per ora poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
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La stessa dottoressa Batignani e il cardiologo d’Alonzo sollecitavano invano Edvige a movimentarsi, provvedendo a periodici controlli del suo stato di salute.
Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ‘comoda’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, specie alle gambe delicatissime ma non ferite, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che ieri insieme abbiamo ricevuto l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta, ma che invece, grazie alla Scuola, alla Famiglia (sua) ed alla premura sanitaria specie di base, corro il rischio di essere come spesso Secondo …
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Li sentii ‘conversare’ e poi discutere animatamente … Edvige disse … stai alla larga o rovinerai la Famiglia … poi lui andò via facendo spostare la sponda del letto dopo aver urtato il comodino.
La Famiglia non è ancora sfasciata.
Nonostante le conversazioni pessimistiche che il cognato fa ogni tanto la sera, quando verso le 22.00 viene a visitare Anna in rianimazione.
Non posso che guardare con preoccupazione e angoscia a queste visite da una parte di una persona che la Madre aveva invitato a ‘stare alla larga’ dal nostro nucleo familiare, perché rappresentava una sorta di minaccia per tutto il nostro nucleo familiare formato da Edvige, Anna Maria e me.
Nelle sue rare visite notturne il soggetto, che personalmente ritengo responsabile morale dello stato di preoccupazione costante nei suoi confronti che caratterizzava Anna Maria, non parla con i medici, con cui forse ha altri contatti, ma con me, ripetendo luoghi comuni di bassa qualità sull’operato dei medici, profezie tetre sul decorso della malattia e sinistre previsioni di vario genere.
Conversazioni simili a quelle assai deprimenti che faceva durante le sue rare visite ad Edvige e Anna, quando parlava di pavimenti rotti, finestre rotte, della sua attività di amministratore delle case della moglie, di malattie e di licenziamenti.
Parlare di tali cose ingenera angoscia in chi non può muoversi liberamente.
Anna Maria Maddalena Luigina Vittori sarà sempre la mia prof e il mio Sostegno …
Grosseto, 24 7 2012
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Repetita juvant … : Dalle certificazioni mediche emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli … mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni e della famiglia di origine, presa naturalmente dalle proprie occupazioni ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente allettata di propria iniziativa, badando a ogni esigenza a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate dai chirurghi nella soppressione del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali.
Edvige per propria volontà si era rifugiata in camera da letto da quattro anni, nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed economiche, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano, ove è sepolta, e poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
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Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ‘sedia a braccioli’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
In definitiva, Edvige, che mi voleva bene ‘assai’ , è stata trattata male, o non trattata affatto, da troppe istituzioni e parenti per poter dire ora cha a maltrattarla sia stato il genero.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che Anna Maria, mia Moglie, la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che insieme abbiamo ricevuto da Padre Carmelo l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta …
So anche che grazie alla gentilezza di tutto il Personale dell’efficientissimo Reparto, il cui Primario è il prof Roberto Madonna, ho potuto parlare ore e ore con Anna … che si sta svegliando pianino pianino, come dice lei …
Ieri ho anche incontrato Padre Carmelo e gli ho ritrovato il borsello che aveva perso … questa volta per ricompensa ho chiesto una benedizione normalissima per me e Anna, che è migliorata, con l’aiuto di Dio e della Medicina …
Grosseto, 4 agosto 2012
gennaro di jacovo
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sabato 28 luglio 2012
Cenni sulla linguistica per Anna Maria …
§
§§
Pubblicato da Gennaro di Jacovo a 01:10 Nessun commento:
Cenni sulla Linguistica
per Anna Maria …
di
Gennaro Di Iacovo






§
§§
… il presepe è stato attuato da Anna Maria, mia Moglie, nella Scuola Media Ungaretti di Grosseto …
§§
§
alla prof
… Anna Maria … Maddalena Luigina di Jacovo
grande insegnante di Sostegno alla
Sscuoa Giuseppe Ungaretti
di Grosseto …
e … ai miei amati alunni.
*






« Perché dunque incolparmi adesso, dell’avervi messo a parte delle mie ansietà, se mi ci spingesti e scongiurasti Tu stessa? Forseché, nel disperato e mortale sbaraglio in cui mi dibatto, sarebbe in tono, che voi intanto ve la godeste? O vorreste forse, adesso, esser soltanto campagne di gioie, e non anche, più, di dolore? rallegrarvi con gli allegri, sì, ma piangere coi piangenti, no? Tra i veri e i falsi amici non c’è maggior divario che dell’ associartisi i falsi, nella fortuna, ma, i veri, nella sventura ». (Abelardo ed Eloisa, Lettera V - Alla Sposa di Cristo il suo servo - A.F. Formiggini Editore, Roma 1927, pagg. 113 segg.).
Secondo Ferdinand de Sausurre « la materia della linguistica è costituita anzi¬tutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun periodo non solo del linguaggio corretto e della “buona lingua”, ma delle espressioni d’ogni forma. Non è tutto: poiché il linguaggio sfugge piut¬tosto spesso all’osservazione, il linguista dovrà tenere conto dei testi scritti, i quali soli potranno fargli conoscere gli idiomi del passato o quelli -lontani.
Il compito della linguistica sarà a) fare la descrizione e la storia di tutte le lingue che potrà raggiungere, ciò che comporta fare la storia delle famiglie di lingue e ricostruire, nella misura del possibile, le lingue madri di ciascuna famiglia; b) cer¬care le forze che in modo permanente e universale sono in gioco in tutte le lingue, ed estrarre le leggi generali cui possono ricondursi tutti i particolari fenomeni della storia; e) delimitare e definire se stessa » (F. De Sausurre, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1979, pag. 15).
Osserva il Mounin {Guida alla linguistica, U.E. 626, Feltrinelli ed., Milano 1975, pagg. 19 segg.) che la « linguistica », intesa come lo studio scientifico del linguaggio umano, è « un insieme di conoscenze molto antico » e, nello stesso tempo, « una scienza assai recente », perché ha in realtà una lunga tradizio¬ne scientiflco-culturale alle spalle, anche se solo recentemente è stata clamorosa¬mente portata all’attenzione d’un vasto pubblico, grazie a recenti studi sociologici e psicologici sui sistemi linguistico espressivi.
Prima gli Indiani, poi i Greci ed .infine gli Arabi hanno posto le basi per un’ana¬lisi fonetica di notevole valore, anche se troppo trascurata per duemila anni.
Certamente, possiamo prendere come motivazione di base della nascita del linguaggio l’esigenza di comunicare impressioni ed informazioni nata dall’incontro di esseri dotati di sensibilità e, se vogliamo, d’intelligenza. Molto tardi si è svilup¬pata la scrittura. Per giungere a questa si è dovuto genialmente intuire che è pos¬sibile connettere ad altro segno-simbolo grafico-fisico un suono, ed infine un si¬gnificato convenzionale. Si è giunti per gradi a quei segni che ora chiamiamo « let¬tere », e che hanno la funzione di materializzare visibilmente dei suoni (fonemi).
I primi linguisti senza dubbio sono stati « gli uomini che hanno inventato e perfezionato la scrittura » (Meillet, in Mounin, op. cit.). Durante il Medio Evo, ac¬canto ad uno studio convenzionale e grammaticale, spiccano alcune intuizioni ori¬ginali e quasi anticipatrici di teorie ancora oggi attuali, come quelle di Dante, che esamineremo più oltre.
La riforma dell’ortografia, operata in tutta Europa e resa operante con l’inven¬zione della stampa, stimolerà lo studio della fonetica fino al secolo XVIII. Del XIV secolo sono le prime grammatiche delle lingue volgari. Guido Cavalcanti scrisse « una grammatica e un’arte del dire » sul volgare fiorentino (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Voi. I, pag. 56, Einaudi, 1958). Dal XVI secolo inizia lo stu¬dio delle lingue amerinde e nascono i primi dizionarì poliglotti. Si tentano le prime classificazioni linguistiche (Scaligero). Nel XVII e XVIII secolo la ricerca si esten¬de in ogni direzione: la fonetica progredisce con gli studi anatomici ed appas¬siona gli inventori delle stenografie e delle lingue artificiali, e gli educatori dei sordomuti.
: 38
Tuttavia resta insolubile il grosso problema dell’origine del linguaggio, malgrado le ipotesi proposte, tutte non sufficientemente attendibili o non verificabili, come quella dell’ebraico lingua madre. La scoperta del sanscrito, tra il 1786 e il 1816, segna una grande svolta in questo campo, Si dimostra, con una evidenza indiscu¬tibile, la parentela tra il latino, il greco, il sanscrito, le lingue .germaniche, slave e celtiche. Nasce, con i tentativi operati da Franz Bopp per ricostruire l’indoeuro¬peo nei suoi tratti essenziali, la grammatica comparata. Si prende spunto, para¬gonando fra loro i diversi linguaggi, dai metodi e dai principi delle scienze natu¬rali. Le lingue vengono assimilate ad organismi viventi: allo studio del linguaggio viene applicato, per quasi mezzo secolo, il metodo biologico.
Secondo i grammatici « naturalisti », come lo Schleicher, che era anche bota¬nico-naturalista, le lingue nascono, crescono e muoiono come qualsiasi organismo vivente. E la loro vecchiaia inizia dal momento in cui si codificano nella scrittura.
Dagli studi linguistici comparativi, si sviluppa la linguistica storica, che nasce dall’esigenza di paragonare fra loro fenomeni linguistici verificatisi attraverso stadi progressivi d’una stessa lingua. Così la grammatica comparata da origine al¬lo studio della incessante evoluzione delle lingue. Questa trasformazione è rea¬lizzata tra il 1876 ed il 1886 dalla scuola dei neogrammatici, a cui si deve la si¬stemazione rigorosa del fonetismo arioeuropeo.
La fonetica detiene in questa fase una importanza predominante: riesce a spie¬gare la quasi totalità dei mutamenti linguistici.
Ci si rivolge anche alla nuova scienza: la psicologia, per spiegare la dinamica di alcuni fenomeni generali.
La lingua, studiata storicamente, non è più considerata un’entità suscettibile d’un’analisi biologica, ma piuttosto un’istituzione umana. La linguistica diviene, perciò, una scienza storica, e non appartiene più alla sfera delle scienze naturali.
Una nuova impostazione al problema linguistico sarà data da Sausurre (1857-1913), che interpreterà il linguaggio come una istituzione sociale. Come già si è accennato, compito fondamentale della linguistica è, per il Sausurre, quello di descrivere il maggior numero possibile di lingue storico-naturali e famiglie di lin¬gue sia nella loro funzionalità in un dato momento, sia nel loro divenire attraverso il tempo (studio sincronico o diacronico - « langue » o « parole »), sia da un punto di vista interno, sia da uno psicosociologico, culturale, storico e, in generale, « esterno ».
La teoria del linguista svizzero, in pratica, rovesciò le impostazioni tradizionali della linguistica. Egli stabilisce che la prima tappa d’una scienza del linguaggio dev’essere lo studio del suo funzionamento, « hic et nunc », e non quello della sua evoluzione. La linguistica storica deve esser messa al secondo posto, da un punto di vista metodologico, rispetto ad una più importante linguistica descrittiva. È que¬sta la nota opposizione tra linguistica sincronica e linguistica diacronica.
Lo sforzo di comprendere il funzionamento puro del linguaggio come istituzio¬ne sociale, qui e adesso, conduce il Sausurre a mettere l’accento sulla nozione di sistema. Questo, per lui, è quasi sinonimo di codice. Così « segno », per lui, non è più sinonimo di parola, termine troppo generico, e la nozione di « catena par¬lata » diviene prioritaria rispetto a quella di « frase ». Il termine che Sausurre usa in questo campo è quello di « unità ». Egli vuole individuare le unità reali che compongono la catena parlata. Gli strumenti che propone per studiare le unità di codice che costituiscono i messaggi, sono analisi strutturali. Per questo, con lui, ha inizio il cosiddetto « strutturalismo ». ‘
La lingua, per il fondatore della moderna linguistica strutturale, « è il patri¬monio collettivo delle forme foniche “significanti”, univocamente combinate con i relativi “significati”. Questo’patrimonio di segni è organizzato in “sistema”, in quanto ciascuno di essi deve la sua esistenza al fatto di entrare in certi rap¬porti con gli altri.
La “funzionalità” del sistema — ciò che lo rende uno strumento atto a funzio¬nare nei singoli atti di “parola” — è costituita appunto dalle opposizioni e corre¬lazioni intercorrenti tra i singoli elementi, i quali risultano individuati dai loro rap¬porti differenziali nei confronti degli elementi similari, piuttosto che dalle loro caratteristiche positive » (R. D’Avino, Introduzione a un corso di Storia Comparata …
delle lingue classiche, Kappa Ed., Roma 1967, pagg. 13 segg.). Quindi, per com¬prendere veramente un termine, non si può isolarlo dal sistema di cui fa parte
In tal modo il linguista svizzero anticipa i risultati e le scoperte dovute agli studi di antropologia culturale, che vedono la lingua non come legata ad una struttura oggettiva di cose, ma come creatrice di tali strutture, in funzione dei bi¬sogni della società che la pone e la mantiene in essere.
La lingua ha infatti la capacità di discriminare l’esperienza in significati e di organizzare le fonìe o le loro rappresentazioni grafiche in significanti.
Sausurre distingue, all’interno del fenomeno linguistico, un aspetto « oggettivo » costante, la « langue », ed un aspetto « soggettivo », individuabile, espressivo, la « parole ».
La « parole » è l’uso che ciascun parlante fa del patrimonio linguistico espres¬sivo comune (« langue »).
L’opposizione fra « langue » e « parole » si può interpretare come quella fra sistema astratto e sue singole manifestazioni materiali. Quella fra paradigmatica e sintagmatica si può interpretare in termini di codice e messaggio; ad essa molti fanno corrispóndere una distinzione terminologica fra struttura (sintagmatica) e sistema (paradigmatica). (G.C. Lepschy, La linguistica strutturale, P.B. Einaudi, Torino 1966, pag. 31).
I principali agenti del mutamento linguistico vengono individuati nei fenomeni dell’alternanza, dell’ analogia e dell’agglutinazione.
Dopo Sausurre, lo strutturalismo ha assunto varie tendenze:
Strutturalismo ontologico (Chomsky): concepisce, antistoricamente e naturali¬sticamente, le strutture sociolinguistichre come prodotto delle doti biologiche
contenute nell’uomo, nella sua natura, e quindi le ritiene « innate ».
Strutturalismo. storicizzante: riconosce nelle strutture un prodotto storicamente e tem¬poralmente circoscritto dell’agire umano. Lo strutturalismo praghese (Jakobson e Trubeckoj) è stato ontologico e storicizzante.
Strutturalismo metodologico: concepisce le strutture solo come sistemi utili alla pre¬
sentazione ed alla catalogaziene dei fenomeni.
Strutturalismo. epistemologico: nel riconoscimento del carattere strutturato d’un campo d’esperienza vede una necessità non derogabile della conoscenza umana.
Lo strutturalismo americano è stato soprattutto uno strutturalismo metodolo¬gico. Bloomfield, Harris, Hockett ed Hall ne sono i maggiori esponenti.
Poiché la lingua è un organismo in evoluzione, ci si offre la possibilità di un suo studio diacronico che ne colga l’evolversi temporale.
Sausurre privilegia però, come si è già detto, un secondo tipo di analisi del fenomeno linguistico, basato sullo studio della lingua in un determinato momento storico, così da descriverne il meccanismo ed i rapporti esistenti fra gli elementi che ne costituiscono il sistema. Così, pur ponendo in evidenza l’arbitrarietà del linguaggio, afferma che tale caratteristica è limitata e disciplinata daìla organicità del sistema.
Tutto il sistema della lingua poggia sul principio irrazionale dell’arbitrarietà del segno, per cui il significato viene unito al significante non per una precisa legge naturale, ma in base a criteri « arbitrari » scelti dal parlante.
Questo principio, applicato senza restrizione, porterebbe alla massima con¬fusione.
Lo spirito riesce ad introdurre un principio d’ordine e di regolarità in certe parti della massa dei segni, ed è in ciò il ruolo del relativamente motivato. (F. De Sausurre, Corso di Linguistica Generale, Laterza, Bari 1972, pag. 159).
Solo una parte dei segni è assolutamente arbitraria. Presso altri interviene, in¬vece, una serie di rapporti che ne limitano l’arbitrarietà, lasciando il posto ad una motivazione, che resta, comunque, pur sempre parziale.
Questi rapporti che determinano il significato arbitrario dei segni sono detti paradigmatici (o « associativi »), in quanto definiscono o precisano il significato all’interno di una medesima serie (insegnare, insegnamentp, indottrinamento etc.). Sono rapporti in absentia.
Altri rapporti, però, contribuiscono a definire il significato di un segno, e sono i rapporti sintagmatici. Vale a dire quelli che intercorrono fra una parola e quelle che seguono o precedono nella frase.
Il valore della parola dipende, perciò, anche da quello delle parole che la cir¬condano nella catena parlata. Si tratta, quindi, di rapporti in praesentia.
Lo studio sistematico di ogni unità minima, di tutte le sue possibili associa¬zioni oppositive (paradigmatiche) o dei vari rapporti sintagmatici, coincide con una considerazione « sincronica » della lingua.
Questo si traduce in una « linguistica statica » che descrive un particolare stato della lingua. Questa per Sausurre è la « grammatica ».
Tale concetto supera la grammatica normativa tradizionale, basata su rigorose classificazioni delle parole (le « parti » del discorso). Si arriva ad una visione glo¬bale, sistematica e funzionale del fatto linguistico. La « morfologia » si fonde con la « sintassi » e con lo studio lessicologico. Anziché partire dagli elementi lingui¬stici, si parte dal sistema, avendo come fine la scoperta di come funzioni e si realizzi nei singoli atti del parlante. Dopo le feconde e geniali intuizioni di Sau¬surre, — scrive G.C. Lepschy (La linguistica strutturale, Einaudi 1966, pagg. 37-39) — le tendenze strutturalistiche si possono caratterizzare sommariamente co¬me segue, in base alle loro linee direttive teoriche.
La Scuola di Praga, e più recentemente A. Martinet, per il loro insistere sui valori funzionali della struttura linguistica e dei veri elementi di cui la struttu¬ra si compone.
La Scuola di Copenaghen, e in particolare la glossematica di L. Hjemslev, per il suo insistere sul carattere astratto del sistema linguistico, in base al quale van¬no interpretate le singole manifestazioni materiali.
La linguistica americana, in particolare postbloomfieldiana per il suo carattere tassonomico, per il suo basarsi cioè su processi di segmentazione (del continuum, dell’enunciato in elementi minori di cui esso è composto) e di classificazione di tali elementi in base alle loro proprietà distribuzionali (in base cioè alle possibilità che tali elementi hanno di combinarsi fra loro, formando unità di ordine superiore sempre più complesse).






Le teorie generative, in particolare di Chomsky, elaborate a partire dalle diffi¬coltà contro cui si scontrava l’analisi linguistica tassonomica, introducono nel modello linguistico da esse elaborato, delle regole che consentono di generare (tutte e solo) le proposizioni ammesse in una certa lingua; si introducono in parti¬colare delle regole di trasformazione che consentono di generare intere categorie di proposizioni a partire da altre categorie di proposizioni basilari (la cui struttura viene stabilita attraverso procedimenti tassonomici).
La grammatica generativa trasformazionale è composta da un blocco o com¬ponente centrale sintattico (un calcolo, come si direbbe con termini della logica moderna); da un lato questo è soggetto a un’interpretazione semantica (il compo¬nente semantico è quello che attualmente richiede maggior elaborazione); dall’al¬tro, le « stringhe » finali che esso produce vengono, attraverso le regole del com-ponente fonologico, materializzate nella catena parlata, nei messaggi fonetici che noi percepiamo. Una posizione centrale hanno le teorie di Jakobson e più recente¬mente di Halle, secondo cui nel componente fonologico ci si serve di un inventario di dodici «tratti distintivi binari » che costituiscono veri universali linguistici, co¬muni a qualunque lingua.






Noam Avram Chomsky porta i dati e le intuizioni di Sausurre a livelli decisa¬mente rivoluzionari. La linguistica, con lui, abbandona ogni finalità semplicemente classificatoria (linguistica tassonomica) per interessarsi soprattutto di ricostruire modelli ipotetici espliciti delle lingue, destinati a chiarire i dati linguistici osser¬vabili. Con lui ci si avvia verso una vera concezione teorica della linguistica, già abbozzata dagli strutturalisti.
Il linguista americano, che ricerca le forme della realtà profonda del linguaggio, reinterpreta la distinzione sausurriana di « langue » e « parole » nei termini di « competenza » (la conoscenza implicita, e non conscia, che il parlante ha della propria lingua) e di « esecuzione » (le frasi che il parlante produce realmente, nelle quali si manifesta la sua competenza), e si propone di definire la compe¬tenza linguistica, cioè, come egli scrive. « // sistema astratto di regole che sotto¬sta al comportamento verbale di ciascun parlante ». Chi parla una lingua può pro¬durre, e comprendere, un numero pressoché illimitato di frasi, la maggior parte delle quali non sono mai apparse prima, e, molto verosimilmente, non riappari¬ranno più.
Ogni parlante « reinventa » la lingua. Di questo aspetto creativo del linguaggio umano, fondamentale per Chomsky, non darebbe certo ragione una indagine che si rivolgesse all’esecuzione — cioè a un corpo di.testi necessariamente finito —, per estrarne, induttivamente, il sistema di regole che lo governano.
Del resto, come ricorda l’esperienza della scienza contemporanea, la raccolta, l’osservazione e la classificazione dei dati non ci garantiscono alcuna generalizza¬zione scientificamente valida, che possa cioè prevedere i nuovi fatti, oltre a fornire una descrizione plausibile di quelli già noti. La formulazione di una teoria scientifica comporta sempre un rischio. Essa viene costruita servendosi di un numero limi¬tato di esperienze, e quindi verificata nei fatti, che hanno la funzione di farla respin¬gere o accettare (« i dati dell’osservazione sono interessanti nella misura in cui hanno una incidenza sulla scelta fra due teorie rivali », scrive Chomsky). A questi principi s’attiene il linguista, allorché cerca di specificare le regole che governano la competenza lingusitica, elaborando alcuni modelli ipotetici (grammatiche), e confrontandoli quindi con i fatti linguistici reali, che decideranno quale sia il più adeguato.
A differenza degli strutturalisti europei, Chomsky non parte dalle unità minime della lingua, ma dalla frase. Il compito di uria grammatica risiede nella capacità di enumerare tutte le frasi incontestabilmente grammaticali della lingua data, esclu¬dendo, per converso, quelle pure incontestabilmente non grammaticali (V. Boarini -P. Benfiglieli, Avanguardia e restaurazione, Zanichelli, Bologna 1976, pagg. 666 segg.).
In questo modo il fatto centrale nello studio del fenomeno linguistico è la in¬nata capacità che ha ogni parlante di produrre e di comprendere un numero gran¬dissimo di frasi, anche se non le ha mai prima d’allora ascoltate né pronunciate. Questa capacità produttiva e decodificatoria nell’ambito linguistico, la chiama dunque « competenza (linguìstica) » (= conoscenza implicita che ogni parlante ha della propria lingua). Tale sistema mentale di regole e norme linguisticamente ope-ranti è codificato nella « grammatica ».
Chomsky tende a ridurre i modelli linguistici ad un insieme di regole meccanica¬mente applicabili sotto la forma di un algoritmo (procedimento sistematico che consente di pervenire al risultato desiderato con una bene determinata succes¬sione di operazioni eseguite secondo regole precise).
Abbandonando la pretesa di emettere giudizi inconfutabili sulle reali regole usate dal parlante nella produzione linguistica, la grammatica generativa cerca in sostanza di adeguarsi, cercando di definirne i meccanismi, alla realtà sottostante il comportamento effettivo dei parlanti. Così diventa una branca della psicologia.
Si cerca pertanto di ricostruire ipoteticamente e scientificamente la struttura di un meccanismo che ogni bambino ha riprodotto appropriandosi di un linguaggio in un determinato ambiente.
Questo meccanismo deve essere molto sistematico e ben coordinato, operante secondo schemi omogenei, se è vero che bambini di 2-3 anni sono già in grado di appropriarsene. Insomma, una grammatica è un meccanismo capace, pur essen¬do finito, di generare un insieme infinito di frasi grammaticali.
Il modello linguistico di base di cui Chomsky si serve per visualizzare i rapporti esistenti fra i costituenti (parole) della frase, è il « phrase marker » (indicatore della frase). Questo è anche definito « indicatore sintagmatico », in quanto scom¬pone la-frase in gruppi sintagmatici,- ossia in gruppi di parole che hanno un con¬tenuto unitario, e all’interno di ogni sintagma specifica le categorie (nome, articol et cetera) e le funzioni (soggetto, predicato etc.).
Il costituente più elevato è la frase.
Ad esempio:
l’uomo colpisce la palla
Una prima divisione comporta una prima distinzione fra due sintagmi. Il sintagma o gruppo nominale (GN] « l’uomo », forma¬to da articolo (o determinante) e nome, ed il sintagma o gruppo verbale « colpisce la palla ». Quest’ultimo può essere diviso ancora in altri costituenti: il verbo, « col¬pisce », ed il secondo gruppo (o « sintagma ») nominale (GN) « la palla ».
I due GN possono essere scomposti neMoro costituenti ultimi (parole, « mor¬femi » o, per Martinet, monemi, ossia unità linguistiche minime dotate di signi¬ficato):
l’uomo = GN (o SN) = Art (o Determ.) + N (sogg. = GN 1) la palla = GN - Art + N (compi, ogg. = GN 2)
La « formula » della frase semplice è, quindi, la seguente: Fs = GN + GV.
Mediante l’applicazione d’una serie di « regole di riscrittura » si giunge ai costi¬tuenti terminali:
GN + GV Art + N + GV Art + N + Verbo + GN + N + Verbo + GN + uomo + Verbo + GN + uomo + colpisce + Art + N + uomo + colpisce + la + N + uomo + colpisce + la + palla
(E. Cavallini Bernacchi, l’insegnamento della lingua, II Punto-emme edizioni, Mi¬lano 1975, pag. 84 e N. Chomsky, Le strutture della sintassi, U. Laterza, Bari 1974, pag. 36).
(Nota: le « regole di riscrittura » hanno la forma generale X—>Y, da interpre¬tarsi come « si riscriva X come Y ». Per es. F—» SN + SV (Frase = Sintagma (o Gruppo) Nominale + Sintagma Verbale).
Questo sistema permette — cosa che si nota facilmente — di visualizzare an¬che le differenze di struttura che possono generare ambiguità in frasi apparente¬mente simili.
Esaminiamo la frase seguente:
1. una vecchia
porta la sbarra
2. una vecchia porta
la sbarra
L’ambiguità è generata dal modo in cui si intende il monema « porta »: Nome
oppure Verbo. :
Nel primo caso la stringa categoriale sarà A + N + V + A + N.
Nel secondo sarà: A + Agg. + N + Pron. + V.
Ma esistono frasi che restano ambigue anche dopo un’analisi sintagmatica strut-turale di questo tipo.
Per esempio, la frase « il maestro spaventa il bambino » è ambigua, perché può essere assunta sia nel senso che il maestro compie qualche azione che spaventa il bambino, sia nel senso che il bambino si spaventa alla sem¬plice vista del maestro.
Nei due casi è diversa la relazione tra « il maestro » e « spaventa ». La gramma¬tica sintagmatica non è in grado di distinguere strutturalmente le due interpreta-zioni.
La grammatica sintagmatica non sa render conto delle relazioni intuitive fra una frase attiva e la corrispondente negativa, interrogativa o passiva.
IL TRASFORMAZIONALISMO
Per questo motivo Chomsky introduce le regole « trasformazionali ». La sua grammatica è detta perciò « generativo-trasformazionale ». In questa grammatica, ad una prima analisi « sintagmatica », che visualizza le strutture profonde delle frasi, segue una seconda analisi che chiarifica le regole di trasformazione, determinando la struttura superficiale delle frasi, che coincide con la forma finale degli enunciati.
Per esempio, alla struttura profonda « io ordino a te tu vieni » operano le trasformazioni che la mutano in:
« ti ordino di venire » .
La grammatica sintagmatica analizza solo la frase-base.
Costruito il primo indicatore sintagmatico, si può procedere all’applicazione di ogni possibile trasformazione:
ti ordino di venire?
Ti ordino di venire!
Vieni! … te lo ordino
Da parte mia ti si ordina di venire
Io … ordinarti di venire !…
(interrogativa, esclamativa ed imperativa; negativa, passiva ed enfatica).
La frase-base è « dichiarativa ».
Le posizioni della grammatica generativo trasformazionale, come osserva la Bernacchi, sono, implicamente, un’accusa continua ai fini ed ai metodi delle gram¬matiche tradizionali. Mentre quest’ultime (ch£ si identificano in genere con quelle scolastiche) si preoccupano di fornire al parlante un insieme di regole che rendano corretto ed ortodosso il suo uso linguistico, le grammatiche generative assumono che le regolarità della lingua siano già implicitamente possedute dal parlante, alla cui competenza, anzi, fanno continuo ricorso per valutare il loro grado di ade¬guatezza.
Il fine di tali grammatiche, quindi, non è di fornire le regole della lingua, ma di scoprirle deducendole dagli usi linguistici concreti. Esse si propongono non di « in¬segnare la lingua », bensì di indagare sui processi mentali che regolano l’acquisizio¬ne e l’uso delle lingue, cioè di formulare un sistema di norme che permetta la for¬mazione di tutte le possibili frasi grammaticali ed escluda invece quelle non grammaticali.
Non hanno dunque intenti didattici, ma scientifici. Loro scopo, come si è accen¬nato, è la costruzione di una teoria del linguaggio.
Per questo, tali grammatiche rifiutano ogni atteggiamento di infallibilità e di incontestabilità, prerogativa delle grammatiche tradizionali. In questo senso, pur senza assumere fini didattici, le grammatiche generative contengono fondamentali fermenti didattici. Le « regole » grammaticali si rivelano inutili in un doppio senso: da un lato perché l’insegnante dovrebbe abituarsi a non spiegare ai propri alunni i fenomeni della lingua, ma a cercarne invece insieme a loro diverse possibili spie¬gazioni; dall’altro perché ciascuno impara a parlare correttamente da” sé, purché venga esposto all’emissione di enunciati corretti, e purché non gli sì crei la paura di sbagliare.
In questo senso uno dei fondamentali compiti dell’insegnante riguardo all’ap¬prendimento linguistico resta quello di riprodurre e di incrementare la situazione naturale di conversazione, di scambio verbale spontaneo attraverso cui ogni bambino, senza che gli vengano insegnate regole, impara a parlare.
Sì tratterà poi, in diversi gradi a seconda del livello scolastico o delle fasce di
livello all’interno di una classe medesima, di prendere spunto da questi atti di co¬
municazione per avviare riflessioni sistematiche sulle caratteristiche dell’uso lin¬
guistico, così da rendere ciascuno il più possibile consapevole delle caratteri¬
stiche, della natura e delle possibilità dello strumento linguistico (E.C. Bernacchi,
pagg. 90-91).
§
:
DANTE PRECURSORE DELLA MODERNA LINGUISTICA
Intuizioni dantesche di chiarissima.attualità sono la considerazione del linguaggio come «forma» e del « segno » come « libero »; il riconoscimento del divenire delle .lingue e della sto¬ricità del fatto linguistico; il rilievo del fattore sociale nel processo evolutivo dei linguaggi; la nozione di « lingua » come comunione linguistica nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; la nozione di lingua comune come ten¬denza cosciente all’unificazione, che si attua attraverso il magistero dell’arte e il prestigio e l’azione del potere politico.
Sarà bene analizzare brevemente solo alcuni di questi punti, mirabilmente illu-strdu ud Antonino Pagliaro (A. Pagliaro, Nuovi Saggi di Critica Semantica, la dot¬trina linguistica dì Dante, Editore G. D’Anna, Messina-Firenze 1963, pagg. 215 segg.).
Il linguaggio è, per Dante, facoltà propria ed esclusiva dell’uomo di esprimere con parole gli intellectus o conceptiones della mente.
La parola è per lui il « segno fonico », come noi l’intendiamo, « rationale et sen¬suale » (De Vulgari Eloquentia, I, III, 2); ha, cioè, una realtà sensibile, in quanto il suono è oggetto di sensazione, ed una realtà spirituale, in quanto il complesso fonico ha un significato che ad esso inerisce non per necessità naturale, ma perche gli uomini ve lo attribuiscono: « nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare idetuz ad placitum » (De V.E. I, III, 3) (ed appunto questo segno è quel subietto nobile di cui parlo): infatti è alcun¬ché di sensibile, in quanto è suono; e di razionale, in quanto appar significare alcuna cosa a piacimento) (Dante Alighieri, Tutte le opere, a C.L. Blasucci, ed., Firenze 1965, pag. 205 b).






” Fu necessario, dunque, che il genere umano per comunicare fra sé le proprie idee disponesse di qualche segno sensibile e razionale; che esso, dovendo da ra¬gione ricevere ed a ragione portare, fu necessariamente razionale; e non potendosi d’altra parte riferire da una ragione all’altra se non per mezzo sensibile, fu neces¬sariamente sensibile. Pertanto, se fosse soltanto razionale, non potrebbe passare dall’uno all’altro; se fosse soltanto sensibile, non potrebbe da ragione ricevere ed a ragione portare » (De V.E. I, III, 2).
Sono da rilevare due punti essenziali in questa concezione. Prima di tutto il riconoscimento (cinque secoli prima di Sausurre) dell’arbitrarietà del segno lin¬guistico, e più precisamente della libertà della parola come complesso di segni va¬riamente organizzati. Tale arbitrarietà (« aliqujs significare ad placitum ») è lega¬ta da Dante con la libertà inerente allo spirito [ratio], mentre gli animali che ob¬bediscono all’istinto sono legati nel comunicare a certi atti o manifestazioni emo¬tive (« per proprios actus vel passiones » — per mezzo dei suoi propri atti o pas¬sioni — De V.E,, I, III, 1).
La facoltà di connettere suono e significato è data all’uomo da natura, ma l’at¬tuazione, la modalità di tale connessione è ad arbitrio degli uomini, cioè della li¬bertà che è inerente alla loro « ratio »:
« Opera naturale è ch’uom favella;
ma, così o così, natura lascia
poi fare a voi, secondo che v’abbella » (Paradiso XXVI, 130-132).
A questa comune capacità fonico semantica, corrisponde nei fatti una grande varietà di lingue diverse.
Per spiegare la formazione di comunità linguistiche distinte, Dante ricorre alla tradizione biblica della confusione babelica, interpretandola in forma nuova e ori¬ginale.
Gli uomini che erano intenti alla costruzione della torre, per la necessità del loro lavoro, crearono tante lingue speciali in conformità alle singole attività comuni.
« Solo quelli, infatti, che si accomunavano in una data operazione vennero ad avere una lingua medésima: una, per esempio, tutti gli architetti, una quanti rotolavano i sassi, una quanti li preparavano e così avvenne di tutti gli operai. E quante erano le forme di attività impegnate nella costruzione, in tanti idiomi allora si divide il genere umano » (De V.E. I, VII, 7). Dante individua nel bisogno di comu¬nicazione, inerente al comune lavoro, la creazione di singole lingue speciali.
47 Pur senza staccarsi dalla base culturale tradizionale, costituita dalla Bibbia, egli aggiunge una nota nuova al mito ebraico, anticipando la moderna teoria « sinergastica »’(greco: siunergàzomai = lavoro insieme) dell’origine delle lingue.
Sulle lingue europee, Dante pone quello che chiama « idioma tripharium » come lingua che ha dato origine alle tre lingue romanze a lui note: francese, provenzale ed italiano. Non dice, però, esplicitamente cosa sarà stato questo linguaggio che è alla base delle tre lingue neolatine. Non lo identifica, comunque, con il latino della tradizione colta.
Lo sviluppo del suo argomentare porta necessariamente alla nozione di una lingua parlata, di cui il latino letterario, il latino dell’uso colto medioevale, sarebbe stato la forma grammaticale.
E nello stesso modo in cui ha intuito l’unità sostanziale dell’idioma tripharium, di cui la « lingua del sì », la « lingua d’oil » e la « lingua d’oc » sono manifestazioni diverse, Dante intuisce anche la fondamentale unità della « lingua del sì » alla base delle varietà dialettali. In tal modo, quindi, giunge alla determinazione della comu¬nione linguistica, che è alla base di un dominio dialettalmente differenziato, ossia della « lingua » nel senso « storico » della parola.
« In quanto agiamo come Italiani, abbiamo alcuni segni essenziali e di costumi e di atteggiamenti e di idioma, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane. E appunto questi, che sono i segni più perfetti di quelle che sono le azioni proprie degli italiani, non sono specifici di nessuna città d’Italia e in tutte sono comuni; fra essi ora si può discernere quel volgare di cui sopra andavamo in cerca, del quale ogni città vi è sentore e che in nessuna ha sede » (De V.E. I, XVI, 3-4). È da rilevare che Dante pone la lingua sullo stesso piano dei costumi e degli istituti, in cui si determina la fisionomia storica di una comunità.
Noi oggi sappiamo, e Dante lo aveva”intuito, che l’affermarsi di una lingua co¬mune su un dominio dialettalmente differenziato è dovuto a circostanze varie, poli¬tiche e culturali, che danno la prevalenza alla parlata di una regione, di una città o addirittura di un ceto. Così è avvenuto per la Koinè greca, affermatasi per il pre¬stigio politico e culturale di Atene; così è avvenuto per l’italiano, per il francese, per il tedesco.
Ma Dante non ci trovava, come ci troviamo noi, ora, di fronte al fatto compiuto, e con le sue intuizioni anticipava l’avvenire, riuscendo a prevedere lo sviluppo probabile di certe potenzialità linguistiche.
Se l’italianità linguistica ha la sua essenza in alcuni caratteri fondamentali. •• primissima signa », il volgare illustre, cioè la lingua comune, non può aversi se non attraverso lo scoprimento di questi caratteri e l’adeguamento ad essi di ogni atteggiamento del parlante, escludendo il difforme ed il deviato dall’uso corretto della lingua.
Appare chiaro come Dante veda nell’unificazione linguistica un’opera di crea¬zione nazionale e popolare collettiva, ed un’opera di ricerca cosciente e paziente da parte di una minoranza di intellettuali che. avvalendosi dell’Arte, di un gusto gentile e raffinato e dell’appoggio d’un opportuno ambiente politico, dia uniformità ed ampiezza all’uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.
Concludendo, gli elementi nuovi apportati dal trattato dantesco nei confronti della speculazione linguistica antica e anticipatori delle moderne dottrine lingui¬stiche si possono così riassumere: considerazioni del linguaggio come « forma » (ossia costituzione del vocabolo nel suo rapporto necessario fra suono e significato e modo di organizzare i vocaboli nella frase: delimitazione di Piano Paradigmatico e Piano Sintagmatico) e del « segno » come « libero » (arbitrarietà del linguaggio, per Sausurre); riconoscimento del divenire delle lingue e della storicità del fatto -linguistico; rilievo del fattore sociale e politico; nozione di « lingua » come « co¬munione linguistica » nei confronti di un dominio dialettalmente differenziato; nozione di lingua come tendenza cosciente all’unificazione, che si attua attraverso il magistero dell’Arte e il prestigio e l’azione del potere politico.






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venerdì 27 luglio 2012
poesie per Anna e la mamma
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le foglie del nespolo gldj
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Gennaro di jacovo Grosseto
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Alek Sander
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le foglie del nespolo
forum livii quinta generazione 1984
rosetum argos&ruphus editori 2004
Al lupo! …
Perché sono uno che troppe volte ha gridato
“al lupo!… al lupo!…”
povera pecora perduta nel mare dei kissà.
Si accendono luci sulla terrazza del Corvo
ma hanno tagliato la mimosa
e il Sole secca e brucia senza sosta
La Grande Casa se ne sta muta
col suo vecchio tetto crollante
aspetta solo
una famiglia perduta
Quante voci ha sentito
il suo vecchio pavimento
è pieno di passi sonori
e le sue mura
grondano ricordi
Mio Padre non ebbe
mattini passati a cercare
pigne da ardere e origano:
passò le notti a scrivere e sognare
Poi vide il Mare e se ne innamorò
Adesso che fischiano i merli
voglio sentirli kantare
mentre ormai tace
il Mare
Amarkord:
Entrammo spauriti e spavaldi nel ristorante romagnolo
entrammo spauriti e spavaldi
nel ristorante romagnolo
e sotto il tovagliolo
ritrovammo ogni ricordo
Aveva il viso bello e la cravatta a stelle
quando ci salutò l’ultima volta.
I phunghi non erano avvelenati
né salato il conto.
Lo conservo ancora
Tu avevi una maskera appesa
dorata meno smarrita
Io ero Sugar Louis
alla tredicesima ripresa
quella vincente:
non avevo dente
che mi facesse male
macinavo parole
dicevo
tutto con grande coerenza
e avevo grandi ali
distese dietro le spalle
rosse e gialle
pronte a volare lontano
avevo
un’aria di lupo satollo
come per quell’Animale di Apollo
nulla
spingeva la mia nave
al di là dell’atollo
delle anguille
cotte a puntino.
“Luigino!…”
(la cosa sapeva di Gozzano!)
“lo prendiamo il dolce?
E il kapphé?
Domani hai degli impegni
bisogna che ti svegli!”
“Lo sono – amika mia –
solo se non dormo”.
Gli altri – attorno –
sganasciavano lieti
la phontana era muta
senza più pensieri. Seccata
asciutta e triste.
Forse un po’ scocciata.
Troppi incendi.
“Però non è normale
- diceva uno al cuoco –
che debba esser senz’acqua
proprio la phontana
di chi ci toglie il fuoco”.
La cena fu stupenda.
Il giorno dopo
- anche se riluttante –
volò Kwel
nostro aliante
Angoscia
sotto le croste secche
di carta
sul muro cadente
nella stanza celeste
come ricordi antichi
crepitano
strisciando piano
gli scorpioni
con grido forte di angoscia
la bambina fugge
se ha visto
o ricordato
uno scorpione
il padre accorre
e cauto
quasi con rimorso
schiaccia la bestia
ancora crepitante
sul pavimento
di pietre quadrate
tra scarpe rotte
e vecchi tappeti
piccoli pezzi neri
di scorpione
ti guardano
muti
Arance (aranga!)
Sfumò cullandosi dietro le ultime stelle
dell’autunno il piccolo furto
di sale
e la luna sfiorando i cipressi
e gli arbusti bruciati
pareva una palla di marmo
celeste
Gli amici partirono
con le loro gialle facce pallide
e le guance piene di prudenza
e mi lasciarono
scrollando le spalle incavate
A Kwal Kuno spedii la foto
della mia tomba
… d’inverno puliamo accendini
fatati
e rispolveriamo
giacche a vento.
Kwal Kaltro
mangia persino arance
per non avere starnuti
Lassù Kwal Kuno
nella nebbia e nella poltiglia
di neve e di fango
le mangia solo
perché sono buone
Caelm stellatum novembre
Così nelle notti d’inverno
S’alza il gigantesco Orione
Verso le Pleiadi
(le oche migrano a Novembre)
tu Betelgeuse
Alpha di Orione
Splendi lucidissima
(l’anatra guida la freccia pennuta)
tu, Antares, tu
che sorridi lontana
(scamperemo ai massacri dell’estate)
tu, soave Deneb, Alpha del Cigno
viaggi oltre la luce
di seicento anni
(non cade più nel barattolo dello zucchero)
più vicine
la lucente Altair
e la fulgida Vega
(ci vediamo alla Madonna del Fuoco)
e tu piccolo Sole
così abbagliante e vicino
adesso lasci vedere
assente australe
le Grandi Sorelle lontane
A Cecilia da-da
Cecilia
per te almeno della festa non sia
più bella la vigilia.
Tre piccole posate di ghiaccio
e tu rispondi con poesie da-da
negli occhi d’argento
Le ire ho scaricato
sopra un fiume calabro
secco d’Estate
per non dirigere altrove
inutili parole

Si torna a parlare d’Apocalisse.
Ma ormai noi siamo
dopo l’Apocalisse
Noi non abbiamo più
dèi né eroi
né le Phate d’un tempo
né Miti
Ci bastano
solo pochi Gesuiti
… …
Ma per Te almeno
Cecilia
della festa più bella non sia
la Vigilia
E’ bello vedere
è bello veder camminare i piedi
nei loro sandali di pelle marrone.
Quanta strada ho fatto
senza mai camminare
e quanto ho camminato
senza mai spostarmi di molto
per trovare gli occhi diritti
della mia spada ricurva
E’ bello vedere camminare i piedi
nelle loro scarpe di tela avana.
Il pomeriggio che viene intorno
alla mia pelle
mi ha detto stasera:
devi amarla lontana
e fuggirla vicina.
E’ già pronta la bisaccia
per la tua partenza:
essa si avvicina.
E’ bello vedere camminare i piedi
coperti di stivali scamosciati.
Perché Tu hai riso
quando il tuo Amore piangeva
poiché tu hai pianto
se lui rideva
alta sarà l’erba
della tua amarezza
è’ bello vedere camminare i piedi
nelle scarpe di gomma per la pioggia,
Il tuo albero lo hai troppo tagliato
e i suoi frutti cominciano a scarseggiare
adesso che Tu hai sete
lontano è il succo del kaktus …
E’ difficile dire, adesso
E’ difficile dire, adesso, ciò che sei stata.
Idea, forse, chimera fragile.
O speranza.
Oppure una risposta mancata
o una domanda sciupata
fra i tanti “non so …
non è il momento …”
caduti sopra il pavimento
dei nostri “come stai?”
Forse eri quel quadro che attende i colori
sopra i Piani di Studio della Scuola
o quel disco che compro ogni mattina
a cui manca la musica che amo.
forse eri la nebbia che rischiara
o l’umida lumaca con la scia
così argentata.
o quella fetta di kokomero
da mangiare l’estate passata.
O quella manciata di anguille
Che non si fermeranno nel mio piatto.
Forse eri quel gatto
Quella stella cadente
Forse quel bambino
Che ero e che non sarò.
E’ difficile dire adesso quello che eri.
Una voglia di scrivere o strappare
Oppure tante parole amare
Rientrate nella bocca della penna.
Una verde custodia Olivetti
Piena di chiacchiere d’amore
Di foto e cartoline.
Una fila di nere mattine e notti insonni
Passate con gli occhi bruciati
A fissare le palpebre.
Eri forse la vita
Che mi è sfuggita.
O la morte insidiosa.
Oppure quella rosa che non so più mandarti.
Eri forse il disprezzo
Che ho di me stesso?
O un dono immeritato?
Eri tu dunque
Quanta tenerezza
Dell’esercito della salvezza?
O Demone? O Strega Cattiva?
Oppure incoscienza giuliva?
Quante cose non eri
Neppure saprei dire o pensare.
Non eri l’onda del mare
Che ristora d’Estate ma nemmeno
Sabbia cocente.
Non eri veleno e nemmeno elisire di vita.
Forse tu eri … Forse …
Ti eri smarrita!
Nel Bosco delle Perplessità?
O in quello delle Certezze?
Adesso
Mi scrivi da tempo
Ma non mi tieni più testa
In questo poco che resta
Dell’ansia che fu
Sugo salato alterno
Del mio Passato Inverno.
Essa verrà dal mare
Stasera un vento freddo mi scompone
i capelli e spruzzi d’acqua salata
mi spingono lontano dalla riva.
Troppo fredda questa sera
per essere una sera d’estate.
Tutte le nostre parole
le porta via questo vento
mentre mi tuffo
nei nuovi libri sereni
e chiari.
Tu non mi aspetti più
ma nemmeno mi cacci via
e ti penso nelle tue Fiabe
con gli orsi e le Fate
e i draghi che sputano fuoko …
Kwi
nella mia kapanna nel bosko
aspetto il tramonto e la phine
con la mia gialla veste.
Essa verrà dal mare coperta di tristezza.
Essa verrà nuotando come un’anguilla.
Essa verrà strisciando come lumaca.
Essa verrà col tuo sorriso obliquo.
E mi parlerà guardando i miei piedi
ed io sarò come un breve ricordo
volando via sul suo dorso.
Fila strokka
Nella sera c’è una stella
(brillerà fino al mattino)
sogna e pensa gatta bella
pensa e sogna un bel mastino
Quando non ci sarà stella
nelle notti lumacose
quelle notti assai lunose
cercheremo mortadella.
Forse insieme e forse no
qualche volta è troppo tardi
anche per noi gattopardi
fermi e quatti nel comò.
Quindi Zorro stai distante
le burrasche van domate
anche se le hai provocate
col tuo deltaplanoaliante.
Superman alla riscossa
coi suoi muscoli d’acciaio
vola in alto forte e gaio
dalla bella Isola Rossa.
Granturco forlivese
Sopra i dolci vigneti oltre il fiume
tra gli alberi neri svettanti
oltre la pianura
i tuo occhi si posero
nella mia sete
e mi guardarono canzoni
volarono alte
con tenui note
e si parlava di Dio
mentre cercavamo un vino raro
irripetibile
Fu buono quel lambrusco
strappato alla coda
d’una Estate agli sgoccioli.
“Non scrivermi …
e mandami quei libri …”
Tu
Pannocchia di granone dorata
a me strega perduta
nel conto dei tuoi chicchi.
Il canto della morte
Non aspetto che la tua assenza germogli
per questo non dare voce
alla tua succosa disperazione
In questo tiepido pomeriggio di Aprile
mi sento come un veliero senza vento
cadute le sue gialle stoffe
stanchi i suoi nerboruti marinai
floscia l’acqua che intorno
intona il canto della balena
Bastò un leggero soffio
un tempo per lanciarmi sopra le onde
e precipitarmi nei gorghi più cupi
e azzurri
Adesso
forse un uragano soltanto
mi ridarebbe la vita
Ma è meglio stare qui
in alto mare con questi bianchi
uccellacci che svolazzano
intorno intonando
un dolce canto di morte tardiva
un dolce canto di volpe argentata
Il Generale
Hanno lasciato solo il Generale a morire nella sua stanza dei ricordi
hanno lasciato solo il Generale a morire nella tenda dei ricordi
hanno lasciato solo il Generale a morire nella sua onda dei ricordi
Il Generale ora ha tutta la sua Rotondità
Il Generale ora sbadiglia disegnando un mandàla!
E non indossa più la sua casacca sbiadita
ed ha fatto la pace d’Africa
perché ora tutti indossano casacche d’Africa italiane.
Hanno lasciato solo il generale a sorridere sopra le sue proiezioni.
Hanno lasciato solo il generale in preda al suo Es ormai pacifico.
Il Generale ora sorride
sorride e si asciuga una lacrima
vorrebbe scriverle
ma non trova più il suo mittente
così prende la sua penna
senza parole e scrive a se stesso:
“Caro vecchio buon Generale
che sai nuotare sopra gli oceani
che sai passare sotto la neve
la tua casa è sotto la sabbia”
Hanno lasciato il Generale solo
solo come un albero dentro un bosco
a morire nella sua tenda remember
ma prima deve trovare la sua ombra
Sta frugando nei suoi cassetti
il Generale mette tutto a soqquadro
e trova vecchi oggetti scordati
ciuffi di capelli e biglietti variegati.
E sorride nella stanza – sorride e piange –
rivede ancora quando partì soldato
e la sua donna venne a trovarlo
con doni e un pacchetto di fumo
ma aveva quasi otto anni di ritardo
e lui era partito per l’Africa
l’Africa
l’Africa
l’Africa
l’Africa
… …
Africa dolce Africa amara
Africa dune dorate e banane
Africa uccidere con le parole
Africa scrivere e fare frittate
Africa sempre
Africa mai
Africa dove ti cercherei
Africa prendimi e fammi volare
in fondo al mare
… … …
in fondo al mare
Il mare morto
Tu ancora curva la mano
sui capelli rossi
scendi
la strada in fondo
al precipizio:
il mare
ti saprà fermare.
Le foto intorno
hanno una carta bianca
avorio
e una cornice dorata
da piccolo
non rubavo marmellata
rubavo la conserva
dei pomodori
Mentre scendi al mare
di fronte a me
con la mano agiti un addio
lontano
Di notte quando il rombo
del tuono squassa i vetri
della finestra che guarda il nespolo
e il lampo abbaglia
improvviso e l’abbuffaglia
delle nubi scende dal cielo e crolla
nella notte e soffoca la luce
io penso a dove
quella via
conduce.
Il mito è finito
Il prophumo del Mito
è phinito
sul dito e sulle caviglie.
Conchiglie
cercavi.
Scrivevi
meraviglie.
Essi sono fra noi.
Li ho visti
cadere con una stella.
Cadere
su stelle di pelle
li vidi.

La gente distratta
cercando una gatta
ha bevuto cicuta
ed ora starnuta
ed è muta.
Il Premio
Tu non c’eri a Ravenna ieri l’altro
alla festa dei poeti
tra arazzi e tappeti danzanti
c’erano in tanti.
C’era una Poetessa sapiente
a cui mancava solo
la Parola
e c’era la pianola
e una vecchia signora
con un coro d’angeli
e c’era Garibaldi
senza poncho e cavallo
ma sulla sua Renaut
era inarrivabile lo stesso
(per un attimo
mi sono sentito Bixio)
C’era un poeta spagnolo
sudamericano
e c’era il Direttore.
C’era anche Phann
col suo lontano Amore
chiuso nella borsetta
e leggeva la Poesia che parla di Te
così bene
che tutti avevamo scordato
- ma forse non lo sapevamo -
che lassù – lontano –
pare a Milano
Eugenio se ne andava
in silenzio.
Piano.
Immagine
Nel cassetto la vidi sorridere muta
Fra le carte aride di Argan
E di Odisseo politropo
Quasi un fantasma grigio e lucente
Piccola speranza
Messaggio d’amore
Enigmatico
Quasi una
Elucubrazione
Di Chomsky
Persa nell’infinito
Di quel piccolo spazio
O futile scherzo
Di due anime
Senza parole
La donna e la sua ombra
La Donna pianse per buona parte della Notte
quando s’immerse nell’Onda dei Ricordi
con tutto il torpore dell’animo
e corse fuori all’aperto.
Il Sole era tramontato
e la sua Ombra era Konphusa
fra le altre Ombre.
Ma ne sentiva lontano il respiro
e allora la Donna chiamò la sua Ombra:
“Ombra – disse e gridò –
Ombra, allontanati dalla Notte
e cercami
perché non so stare senza Te!”
Ma l’Ombra bisbigliava lontano
perduta sul Promontorio Perduto.
“Ombra! Ti darò ciò che vuoi!
Tramonti e cieli arancioni
con frutti squisiti! ,,, Vieni! …
Ma l’Ombra sussurrava lontano
confusa tra le cose confuse.
Allora la Donna si diede per Vinta
e cedette la sua bisaccia di riservatezza
poiché si sentiva scivolare addosso la vita
come una grossa Anguilla Sfuggente.
“Ombra! … Parlami! …
E’ pietra dura questo silenzio!
Bestemmiami, ma parlami!”
Di lontano veniva insistente frusciando
il sorriso strisciante dell’Ombra.
“Ombra!… Ombra!… Ombra!…
Che tu sia dannata per sempre!
Ti lascerò nella Notte
confusa fra le altre Ombre!
Ti lascerò ai Lupi ed al Vento!
Non ti aprirò mai più
poiché Tu non mi vieni accanto!”
E la Donna che aveva i capelli
come due amanti stanki
corse nella sua capanna
e accese la lampada
per guardare negli Occhi
l’odore della sua tristezza.
E seduta ai suoi piedi
vide l’Ombra
e sentì le sue Fruscianti Parole:
“Tu mi cerchi lontano – Donna
ed io abito nella tua kapanna”.
Allora la Donna spense la lampada
e non vide che la sua Ombra.
Tutto era Ombra.
e nemmeno poteva vedere i suoi okki.
Allora si tuffò in quell’oceano Bujo
e lo trovò nero come la sua kapanna
quando la lucerna era spenta.
Laggiù oltre la schiuma
Laggiù oltre la schiuma di questa marina
danzano grandi uccelli d’aria
sulle ginestre azzurre
e l’acqua del mare è mobile:
s’alza in grandi onde oblunghe
graffiate da unghie di gatto sulla cima.
Invece qui davanti il mare è sereno
non sa nulla di cassa integrazione
e di tesi di laurea
e sussurra appena qualche sillaba.
Lettera al Nord
Ciao. Non scrivi più. Da tanto.
Qui l’inverno è tornato
tra gli spruzzi del mare e le folate del vento
(((la notte due gatti vengono a dormire
sulla rossa trappola)
da Firenze
i libri tardano ma so che verranno)
l’Amiata
mi aspetta bianco di neve)
il tuo prophumo slitta:
si dissolve piano nel fresko
della stagione del raccoglimento
e c’è un nuovo bollo
per i nuovi studi.
La lumaca non ha donato
la sua roulotte per la terra che balla
e l’anguilla senza cagnina
ora nuota nel Mar dei Sargassi.
Nella laguna che traverso ogni mattina
quei pesci che sai li chiamano
‘Anguille Sfumate’.
Luglio di mattina
L’Afganistan lontano geme
sibilando pallottole amare
e Carter si allena
con le sue gialle vesti.
Sapere?
“Il sapere che lo stolto acquista
non è a suo profitto
ne rovina la sorte e spezza la testa”.
Oh Tu! Scetato Profeta Buddho!
Estinto! Tu primo di Asava.
Puro nella Tua Vinnana.
Dove esaurire la nostra
paticca samuppada?
Le tue poesie dolcissime
quell’accostamento di indocili fonemi
e quegli occhi nel piatto
e Tu – e Tu – e Tu
così azzurra marina.
Il caffè sapeva di sale
l’amico si alzò
pensava a uno stupido scherzo
invece eri Tu
caduta nel barattolo dello zucchero
Luna
Poi mi lasciasti solo con la mia vittoria
piazzale En Tò Alamein rosseggiava
triste di luna
e una donna si stropicciava gli occhi
guardando la bouganvillea.
Sul mare la luna
dopo poche atmosfere
mi diceva
guardami
perché fra poche sere
tu ci sarai
ma io sarò lontana.
Oggi a skwola
c’era un banko vuoto.
Mentre parlavi
ti aggiravi per i corridoi
con una lettera
e una ciocca di capelli rossi.
La strega ero io
perduto nel tuo granturco rosso
e nella tua phascina
senza numeri.
L’uomo dell’oasi
l’uomo dell’oasi si è bagnato di nuovo
nel sangue di drago
e nessuna foglia è caduta
sopra le sue spalle.
La prima volta ignorava
la sua prima funzione
ma adesso egli conosce
la sua Prima funzione Superiore.
La seconda volta ignorava
la sua seconda funzione
ma adesso egli conosce
la sua seconda funzione.
La terza volta ignorava
la sua terza funzione
ma ora egli ha capito
la sua terza funzione.
La quarta volta aveva la faccia
della sua quarta funzione inferiore
ed egli ora guarda negli occhi
la sua Anima.
L’Uomo ha imparato a conoscere la sua Ombra
ed ha quattro lati il suo Mandàla Variegato
egli ora è un uovo kosmiko
e naviga nel Mare Galattico
della Tranquillità.
Egli ora scorge Lontani Promontori^
ove si projettano fasci di Ombre
e s’infrangono le Onde dei Ricordi
dove non cade raggio di Luce.
Egli è Colui che è Libero
e vuole essere l’unico abitante
della sua baracca di solitudine.
Nel suo deserto si è fabbricata una capanna
con penne di gabbiano e becchi di anatra
e fuori è la kalda notte arancione dell’Afrika.
Egli ha prevenuto tutti i suoi bisogni
e l’Ombra vive in una stanza accanto.
Talvolta prendono il thè
e li assale l’ondeggiare della rimembranza
loro allora lo coprono di zucchero
e girano in tondo i kukkjai di latta.
Talvolta la sua Anima ulula lugubremente
“Voglio un oggetto! …”
e lui l’akkatetza con il suo braccio di kaktus
e le dice:
“Esci pure kwesta sera
perché sono una Persona Tollerante
e indosso la Maskera Phalsa.
L’Oasi + vicina è a sole 30 miles.
Non phare tardi, Animula,
il tuo Pomeriggio è Vicino”.
L’uomo disegna i suoi Mandàla sulla sabbia
- hanno una forma simmetrica
e kapelli come un assolato mattino –
sono come il dagherrotipo della sua Ombra di Luce
e della sua Rotondità Spigolosa –
Ogni tanto l’Uomo del Deserto
accarezza con le sue Mani di Gatto
la sua amika Volpe Argentata
che si chiama Djapo
- ma lui la chiama ‘Aranga’.
L’uomo e l’ombra
Un giorno l’uomo – che era uscito
per sottrarsi all’urto dell’ “Onda dei Ricordi” –
incontrò il suo Wawao – la sua Ombra –
e così parlò l’uomo al suo puer obscurus aeternus.
“Tu continui ad uccidermi
e a darmi la vita.
Il tuo veleno mi è letale
ma mi sono assuefatto.
Con te vedo molte Ombre
che preferirei ignorare.
Non voglio essere il tuo Totem
la tua sorgente esogamica.
Non voglio – Ombra –
l’ombra della tua Ombra”.
L’Ombra se ne andò quando il sole
fu alto allo zenith. Era il primo pomeriggio.
Il giorno dopo l’uomo
di nuovo fu preda dei Ricordi
e fuori dalla sua Casa incontrò
la sua Ombra.
E così dunque l’Ombra parlò all’Uomo:
“Ascolta – Uomo – ascoltami.
Se tu resti fermo
avrai sempre la tua Ombra
tranne per brevi attimi
se sei sotto il sole a picco
o ti chiudi nel tuo covo.
Ma se tu non vuoi la tua Ombra
a farti ombra
guardala bene e riducila a poca cosa
camminando sempre
verso Occidente
passando le sponde
e le onde e i ghiacciai
camminando sempre
verso Occidente
passando le sponde
e le onde e i ghiacciai
camminando e nuotando.
Solo così per te – solo –
sarà sempre la Vita
un Giorno senza la tua Ombra.
E l’uomo sedette
e vide la sua Ombra
sedersi con lui
enorme fino all’Orizzonte.
Ed era l’ultimo pomeriggio
prima del calare delle tenebre.
Mantova ’80
Anche a tavola
la cultura ha invaso il tuo piatto
il cibo era immangiabile.
Io non sono riuscita a parlare
perché tu – assente – pensavi
e non parlavi.
Se amore dichiari amore
devi esprimere
se rabbia senti rabbia
devi esprimere
se conflitto provi conflitto
devi esprimere.
Ma il silenzio è nulla.
Ora Luglio è agli sgoccioli.
Le lezioni
la scuola, poi, gli esami e la casa.
Incomincia il caos.
Mantova ’80 – II
In macchina parlavi di Gramsci
ti seguivo ma capivi che stavi
sostenendo un esame. Ma quale?
Non c’è anche troppo impegno nella tua vita?
Ed io ti chiedo, al di là di ogni frase,
dov’è l’uomo Genna, l’hombre che conobbi?
Dove si è seppellito? Chi è? Dov’è la sua mente?
Tutte quelle letture che fai, non ti aiutano,
se non ti deciderai a cambiare ottica,
e continuerai a vivere al di là della realtà,
lascerai di te l’impressione di un uomo
che ha tagliato i ponti con l’esistenza.
Aristotele non porta lontano.
A meno che tu
non desideri arrivare in Paradiso.
Ma anche in me c’è abbastanza distrazione;
al tuo arrivo non ti ho neppure chiesto
se avevi trovato un alloggio,
così ti sei ridotto a girare di notte.
Ma perché non parlare?
Mattino a Luglio
Sta per crollare il tetto
della Grande Casa dei Gatti.
Ieri nel posto dove faccio il bagno
è annegato un pompiere.
(Tu hai paura della mia persona
ti terrorizza ancora l’idea
di nominare nostre notti lunose?).
Io qui chiuso nel mio carrarmato
di latta come un uovo di plexiglass
(nella piccola stanza dei giocattoli).
Ah! l’ampia distesa del mare
e le azzurre colline.
Bill, amico di Chinaski.
E tu, Guido, che aspetti?
Aspettando Karpinsky
- e tieni in tasca per Louis
un pacchetto di Gauloises -
tu agiti un nòstimon èmar
inarrivabile.
E tu scrivi poèsie!
“Il Poeta è cosa leggera, alata, sacra”.
Ciao!
e per le strade fangose oppure
senza più nebbia
non perderti
mia Kara Mousa!
Mattino a Luglio
Sta per crollare il tetto
della Grande Casa dei Gatti.
Ieri nel posto dove faccio il bagno
è annegato un pompiere.
(Tu hai paura della mia persona
ti terrorizza ancora l’idea
di nominare nostre notti lunose?).
Io qui chiuso nel mio carrarmato
di latta come un uovo di plexiglass
(nella piccola stanza dei giocattoli).
Ah! l’ampia distesa del mare
e le azzurre colline.
Bill, amico di Chinaski.
E tu, Guido, che aspetti?
Aspettando Karpinsky
- e tieni in tasca per Louis
un pacchetto di Gauloises -
tu agiti un nòstimon èmar
inarrivabile.
E tu scrivi poèsie!
“Il Poeta è cosa leggera, alata, sacra”.
Ciao!
e per le strade fangose oppure
senza più nebbia
non perderti
mia Kara Mousa!
Metamorfosi
Per te fui forse Attila che passa e non ristora
o forse Febo Apollo che soffre nell’ancora
fui gatto e fui scoiattolo. play boy e lo Scetato
fui Dioniso, fui Pegaso, fui Ermes nel creato.
Fui Baldo e fui Biancone con quel ciuffo di meno
che Tu conservi ancora tra l’uomo e l’elettrone;
fui limite e confine, deserto e forse oasi,
non so, ma Tu dimentica, possiedimi alla fine.
Per te fui certo multiplo, fui come un carrarmato
(si, un tank, però di plastica, col suo cannone alzato).
Fui ospite e soldato, fui anche innamorato:
odioso e petulante, fui zuppa e panbagnato.
E adesso nella notte, mentre la Luna splende,
la fine del mio tempo nelle tue guance accende
un piccolo lumino che ti rischiara tutta:
la pioggia ha rovinato per Voi tutta la frutta.
Montgomery for me
Nella piccola città dalla lunga torre
non erano pronti per me gli Stivali:
nella sera girava per l’aria
odore di legna bruciata.
Delle due chiesette
una sola era aperta.
Tu che parlavi con me non capivi:
ti sembrava phorse di essere
kaduta in un presepe phinto?
Solamente 30 anni pha
Kwal Kuno mi donò un montgomery
color kammello.
Stasera a Portobello
un Kasual Shopping
ne ho trovato uno blu notte
e subito il cappuccio
mi si è phikkato in testa.
Shouldn’t you have the answers?
In queste sere di vento
che il Mare sembra kosì ostile
hanno paura persino i Gabbiani
a volare.
In queste sere divento
come un vekkjo veliero in disarmo.
E mi sento
come una vecchia ruota di scorta.
E’ l’ultimo
dell’anno.
Phinisce
un Altro Affanno.
Nel bosco equinoziale
poi tra le brume e le sterpaglie
sulle nostre passate stagioni
nelle nostre parole venali
con le guglie e le cupole
delle celesti basiliche
fra le rose
le viole
i crisantemi
fulgida sopra tutte le stelle
più alta della cima più alta
sulla punta delle veloci plastiche
negli smaniosi contenitori dei piedi
sopra le bretelle traslucide
e plurali più misteriosi
fra le zampe dei gatti
e i vetri degli occhiali
più brillante di ogni parelio
di ogni paraselene
di ogni sole
più splendida della speranza
e di ogni disperazione
più voluttuosa e cocente
più fresca di ogni sorgente
corrente dietro le Pleiadi
preceduta da Aldebaran
apparve
la candida Rigel
e Betelgeuse esplose
mentre Sirio
la più lucida stella
galoppava lontano con Pegaso …
Nella mini phoresta boliviana
L’inverno è passato
sopra le cime alte dei cipressi
quaggiù dove non arriva il suono
delle kampane molisane.
L’inverno è passato come un lungo
addio che mi è giunto
in questo nostro maggio
ormai tutto koperto di ‘no’.
C’eri anke Tu con la tua koppa rikolma
di negazioni
di phutti mousy-kalj
e di piante tropikali
con i tuoi colpi di sonno
(i bambini ti fanno gridare?
O è l’aria della bassa
mentre kantano le raganelle
e la nebbia cade sull’Ariete
d’argento).
L’innesto non ha phuntionato
e tornando da Venetia
era bruciato il nespoliegio.
Tutto il resto verdeggia
nella miniphoresta boliviana.
? ? ?
Non Guerra vogliamo ma Pace
noi siamo i Bronzi di Riace
- sussurra la statua giuliva
- che non ha pagato mai l’ I.V.A.
666
999
la Vita che fugge rapace
mi fece assai poco loquace
per questo non trovo mai pace
e sono quel bronzo
che tace.
Non passa niente
Tutto accade così
Velocemente.
E il guaio è che non accade niente.
Stasera il tempo è kupo.
Miagola il vento
Lontano ulula il Lupo.
Il cielo
È greve
E breve
È l’ora.
Ma so
Che altrove cade
Neve.
Bianca.
Fresca.
Sa di vento.
Tutto passa così
Velocemente.
Ma il gwaio è che qui
Non passa niente.
Okkio di pace
Io sono
quel bronzo di Riace
che guarda con okkjo rapace
ma in fondo ti offre
la Pace!
Parliamo di rane
Le ultime tue parole erano di Ranokkjo
e inesistente, per di più.
Con immutato affetto salutavi
in me quello che fu
un iperglottico amante
o forse un ipoglottico
incostante.
Qui affoghiamo dentro regole precise
di Grammatica Greca
mentre intorno la Gente che sa
vive accendendo Mootooy
e compra compra
compra …
la lira è in difficoltà.
L’incontro di Tennis
non si è fatto.
La maglietta è di nuovo
nel suo armadio.
E tu
sempre chiusa
in quel tuo blaterare
ad altre orecchie
aperto.
Peldigatto
cadde sul cuore dei peli di gatto
spuntati a ciuffi sotto la luce
della luna
e subito il fango della sua anima
divenne pudore e si cambiò
kome phosse un vegetale.
(la donna guardava il sole cadere nel mare
e diceva sommessamente “addio!”
forse perché aveva un gusto votato
all’intensità dell’ultimo momento).
I gatti ti guardano
e aspettano la tua mano
ke li akkaretzi
oppure un bokkoncino saporito
per phabbricare i loro peli di gatto.
Parliamo di rane
Le ultime tue parole erano di Ranokkjo
e inesistente, per di più.
Con immutato affetto salutavi
in me quello che fu
un iperglottico amante
o forse un ipoglottico
incostante.
Qui affoghiamo dentro regole precise
di Grammatica Greca
mentre intorno la Gente che sa
vive accendendo Mootooy
e compra compra
compra …
la lira è in difficoltà.
L’incontro di Tennis
non si è fatto.
La maglietta è di nuovo
nel suo armadio.
E tu
sempre chiusa
in quel tuo blaterare
ad altre orecchie
aperto.
Pensieri d’un bronzo nel cassetto
In un grande cassetto bucato
d’un vecchio armadio tarlato
ho testé ritrovato
la foto d’un Bronzo di Riace
che non si vuol dare più pace
perché Tu sei poko lokwace.
La gente che ama è rapace
e parla con lingua salace
talora con verbo mordace
ma il Bronzo ama solo chi tace
per questo non trova mai pace.
La statua era un tempo giuliva
quando nel tempio saliva.
La gente che nulla capiva
per poco non la divertiva.
Ma ora non sa darsi pace:
nessuno è più tanto audace
da viver mostrando il torace.
Piazza Saffi
Di te il ricordo ancora innaffi:
poke parole skrivi
dietro la kartolina
di Piazza Aurelio Saffi.
Non sai farti capace
k’io sia bronziphicato
come un guerriero
ke tace.
Ma si.
Hai phuso e deposto tu stessa
me fatto metallo rovente
nella phorma di njente
che sono
ke sj-amo
che phummo
(e phumo
noi ormai
non più saremo).
Piccolo paese
C’è un piccolo paese qui vicino
poco lontano dal Mare
ha strade chete e strade e torri
e chiese
e tutto è così minuscolo
che quasi
lo diresti abitato dalle Phate.
C’è un piccolo bar
con cartoline
e gente che gioca a scopone.
D’inverno
qui dentro i cacciatori si esaltano
e si akkalorano
rincorrendo lepri e phagiani
immaginari.
Questo paese così piccolo
vorrei girare ora con Te
nella nebbia e nella pioggia
di questo Aprile tedioso.
E’ un paese dove fanno stivali
come un tempo li portavano i butteri.
E c’è una torre
e una bella terrazza
sopra una valle
ora verde ora rossa
sempre piena di kanti pennuti.
Premilcore
strizza il cuore stasera
tornando a casa
e respirane il prophumo dei ricordi.
Rikordati di kwel pagliaccio
ke un anno pha ti sphiorò i kapelli
e voleva contarli
ma sapeva che eri kalva.
Al buio cercavate l’orekkino
sulla spiaggia deserta
skonphinata (!) di Romagna.
Dapprima con l’aiuto di una piccola
luce erotica (acquisto ignaro).
In pisseria al tavolo vicino
studenti parlavano d’esami
e tu:
“ah! … ma stavolta vengo io … a Natale … …”.
E ancora:
“se almeno tu abitassi + vicino! …”.
Non ti ho rivista +
ma Tu
stasera premilcore
e vola
Amore!
Questo tempo passa
Non vedi come questo tempo passa
e come tutto si perde nel nulla?
Lo vedo perché sempre + frequentemente
tagli la cima della siepe
e i rami del marasco.
Quest’anno ho colto solo sette nespole
e altre quattro sono rimaste in alto
nel caso arrivassi Tu.
Le hanno mangiate grossi coleotteri verdi.
Ho scritto “vendesi”
sulla Grande Casa dei Gatti:
forse ogni speranza
d’un improbabile ritorno all’inizio
scompare.
Il vento cercava di strappare
il grosso foglio
e pioveva forte.
Non vedi come questo tempo passa
e come tutto si perde nel nulla?
Rimasuglio
che resta adesso di quello che eri?
Lacrime e lutto, cenere e rimorsi,
ora che tutti ci siamo accorti
che solo i rettili sono sinceri.
E tremeranno poi le stelle verdi
si spaccherà il cuore del Pianeta
- il giorno che viene: ritmo
la notte che va: perfezione.
Fermati sulla porta, non uscire!!!
Qualcuno ha rubato le scale.
Santa Lucia
Adesso a San Leo sarà caduta la neve.
Immagino bianca
sotto la Luna
la piccola Pieve.
Tu cosa fai? Ke leggi?
Non voglio saperlo.
Immaginarlo. Forse.
Phra poko è Natale.
E’ lontano il tempo di Ci-cale.
Il tarlo
del ricordo riprende a scavare.
Ma è lontano nel Mare
quel giorno lontano.
Non ti ho mai letto la mano?
Ma si. Però era bujo.
Ricordo solo
una mano uguale alla mia.
E’ notte.
Kome due anni pha.
Allora
si conphuse la pioggia e la phontana.
Avana
è la mia nuova agenda.
A djorni è phiera.
E’ Santa Lucia.
Ci saranno mille bankarelle
e Tu kamminerai
esitante
in kwel parapiglia
se comprare piadina
oppure
una nera conchiglia.
Sbrano
e quando mi sono rivelato
mi ha detto “sei simpatico”
però la Luna è tonda.
Il mare? Sa di umido
e cerco l’altra sponda”.
Spesso – Felicità –
sei sopra l’altra riva.
Idiota chi ci arriva.
Sorrisi e sospiri
Nella nebbia che grigia s’addensa
non bastò un sorriso tardivo
coperto di neve futura
a sciogliere il groppo di sale
e di spuma marina.
La mattina
è sempre fatica levarsi.
La sera
tuffarsi nel buio non sempre sicuro.
Sul muro
ho appeso sorrisi
appena accennati
sopra sospiri improvvisi
e lontani.
Passati.
Stralunare I
Ancora non riesco a farmi capace.
Stanotte nel sogno ero di bronzo.
Ero uno
dei Bronzi di Riace.
Nella Notte di Santa Lucia
ero immerso in curiosi miscugli:
ero a bagnomaria.
Mi toglievano a Kroste
il tempo passato
il tempo perduto nel mare
a nuotare
a remare.
Il mio Tempo Passato cadeva a brandelli:
ero uno
dei due Giganti Gemelli.
Ed avevo perduto lo scudo
ed avevo smarrita la lancia.
A bagno negli acidi avevo
persino un po’ mal di pancia.
Intorno a me discutevano
a frotte
artisti. E la notte
era come di giorno:
c’era sempre Kwalk Uno Di Torno.
Un tempo eravamo a migliaia.
Ma adesso io proprio non so
più pharmi kapace.
Come due sassolini di ghiaia
scampati al massacro
immobili e stupidi a Riace
ci guardano muti e un po’ tristi
clienti e turisti
studiosi dai vetri appannati
studenti
e dottori incantati.
Arrivano
un po’ stralunati
persino ministri.
Li chiamano qui ‘deputati’
gli odierni ripritanizzati.
Un destino davvero rapace
essere un Bronzo di Riace
a me poco piace.
Mi dispiace
così senza scudo né spada
a ciascuno far viso
di pace.
Speranza
Credo che prima o poi
e me lo lego al dito
(io) fonderò un Partito!
Piccolo come il Mondo
e grande come un granello
di sabbia sottile. Un gioiello.
Un monile.
Il suo simbolo?
Un orecchino
leggero e fino
di oro zecchino
come quello perduto nel Mare
senza nemmeno nuotare
né bere o affogare.
Un Partito con crisi e con scismi
in cui sia sempre Natale
e mai Carnevale.
Sarà un Partito spartito
in confetti.
Qualcosa di nuovo
coperto di stucco
e vecchio direi
come il kukko.
Un Partito di Pace
di bronzo
ma non un partito di Riace.
Un Partito senza dissensi.
Senza parenti.
Con pochi denti
e senza consensi di assenti.
Un partito pieno di okkj
ermetico e chiuso ai finocchi
ai fessi ed ai pederasti.
Un gruppo senza contrasti.
Un Partito senza canestri
per gli extraterrestri.
Il suo stemma sarà una stella.
Ma non coperta di sangue.
Un po’ forse simile a quella
che i Re detti Magi
seguirono lemme e rilemme
fino alla Santa Betlemme.
Una stella kaduta.
Finita.
Svanita.
Perduta.
Aspetto Kwal Kuno
da lontano
che voglia darmi una mano.
Non aspetto consigli e lanute creature sperdute
e nemmeno conigli o fameliche lupe.
Aspetto qualcuno
spero
Ti rassomigli.
Trinità 15
Nelle tue bianche buste colme
di conchiglie e di nastri musicali
e nei tuoi occhi come di uno scosceso
animale in agguato
c’è un arcaico passato.
Qualcuno si lamenta
per lettere difficili da recapitare
e lassù al Nord
organizzano premi e premi
per gli analfabeti eredi di Saffo.
Al nespolo del Giappone
ho messo due rami a spacco
di ciliegio marasco.
Stanotte, in sogno, ti ho parlato.
Pochi minuti, alla stazione,
di passaggio. Non so dove.
Dalle parti tue.
Svegliandomi, ero offeso.
Perché Tu non mi hai chiesto
di restare.
E intanto gira l’orologio.
Di questo passo, Agata,
finisco in Paradiso.
Un mare di piccioni affamati
Oggi a Piazza del Campo
C’eravamo proprio tutti.
Due bambini mi facevano volare
Addosso un mare
Di piccioni.
“Quali colombe dal desio chiamate”
gli amanti ci restano fedeli
come cani accucciati
a un nostro fischio
tutti rispondono.
Ma c’è qualcuno
Un bambino non capisce il gioco
Che non risponde all’appello.
Questo mare di fedeltà molteplici
Che ci tiene avvinti
Sulla strada dell’Appetito.
A Lui siamo fedeli.
Questo mare di legami abnormi
Che ci rende così liberi e servi.
Quest’oceano di frasi
Arbitrarie che avvinghiano
Le nostre così sante menzogne.
E tutto
È solamente
Un volo di piccioni affamati.
Vattene
tutto è pronto per la Tua Partenza.
Vattene. Non voglio più parlare con Te.
Che io non Ti riveda mai più.
Non voglio + dirti
ke passo le Ore a parlare
con i tuoi phantasmi
né che ti detesto
se riesci a respirare
a leggere
a godere Altro
dal tormento del mio pensiero.
Vattene.
Tutto è stato preparato
per questo Addio Astioso.
Anche la mia blesa dolcezza.
Ho bisogno di saperti Perduto
e di rimpiangerti per sempre
di passare i miei minuti
ad aspettarti
Amore.
Per kwesto vattene.
Tutto è pronto per la mia partenza
e per questa inutile disperazione.
Verso l’Universo
l’Uomo si chiuse nel suo Uovo Cosmico
perso nel Mare Galattico della Tranquillità
dopo che la sua Ombra fuggì
verso l’altra sponda – senza più misteri.
Nulla e nessuno più avrebbero infranto
quel suo solare torpore d’anima
nemmeno con rikiami d’amore.
Mise un ultimo kammello marrone
sopra una poesia scritta in Latino
con parole greche e anglosassoni
e partì sul suo vascello d’avorio.
Il dio ritornò sul Parnaso
un dio piccolo e vero ed amabile
solamente se assente e lontano.
Spedì la poesia alla sua ultima Musa
che nemmeno lo riconobbe
e voleva condurlo nel mondo dei Poeti:
ma lui di là proveniva.
E ne conosceva l’essenza:
il Nulla che urge alla Forma.
Lasciò i suoi allori a Dioniso
e tenne per sé il Nulla Puro Assoluto.
Eterno e Lontano: il Futuro.
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martedì, 7 agosto 2012
amata nobis quantum amabitur nulla …
skolkar

martedì 7 agosto 2012
Anna Maria
http://ekwitalikus.blogspot.it/2012/08/lady-hawk_7.html
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§§§
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Gennaro di jacovo
Via trento cinquantaquattro
58100 grosseto
Avvocato Bruno Leporatti Vico del Duomo58100 Grosseto
Dottor Silvia Batignani Via Bolzano 58100 Grosseto
egregio Giudice Maria Navarro in Grosseto
Avvocato carissimo, egregia Dottoressa …
a) X avv.to: allegati alla presente troverà sei certificazioni da cui emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e non necessariamente per volontà della stessa, e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni, anche a causa della sottovalutazione delle sue condizioni e della inspiegabilmente mancata e tempestiva richiesta della condizione di invalida con necessità di accompagnamento, e della famiglia di origine, presa ut ita dicam dalle proprie preoccupazione ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente ufficiosa allettata di propria iniziativa, senza alcun sostegno e di alcun genere da parte dei ‘parenti’ e specie del fratello (!), badando con il mio solo aiuto a ogni esigenza e a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché per una colite ulcerosa a mio avviso sottovalutata o non controllata con adeguate colonscopie a primo livello di medicina basica, ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate dall’intervento dei chirurghi nel dimensionamento del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali, come l’encefalo.
L’ analisi, di cui si trova altra accezione e più ampia in Polibio, a cui dovrebbe essere sottoposta la cara Edvige è l’esame di una persona che per propria volontà si era ritirata in camera da letto da quattro anni, dopo avere rinunciato alle proprietà a beneficio dei figli, su iniziativa del figlio maggiore, che aveva beneficiato persino di tutte le spese notarili, come risulta dalla cedola di assegno circolare 3703117659 dell’ 8 marzo 1999 di lire 13.000.000 a favore del notaio Ciampolini Bardassarri, in occasione della stipula dell’atto notarile (5 3 99 reg in GR il 24 3 99 rep 143631 racc 34774, con cui Edvige divideva le sue sostanze ai figli.
Questo, a mio avviso prematuramente e quasi improvvidamente perché con questo gesto praticamente si impoveriva conservando solo l’usufrutto vitalizio, per mia iniziativa, sulla casa assegnata alla Figlia Anna, che si assumeva l’onere d’una casa ‘vecchia’ e d’una Madre bisognosa da sempre di assistenza nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed ‘economiche’, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare a tratti le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano (qui è stato necessario ripristinare l’impianto idrico ostruito a causa della mancata utilizzazione), ove è sepolta, e per ora poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
*
La stessa dottoressa Batignani e il cardiologo d’Alonzo sollecitavano invano Edvige a movimentarsi, provvedendo a periodici controlli del suo stato di salute.
§§§
§§
§









§§§
§§
§
Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ‘comoda’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, specie alle gambe delicatissime ma non ferite, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che ieri insieme abbiamo ricevuto l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta, ma che invece, grazie alla Scuola, alla Famiglia (sua) ed alla premura sanitaria specie di base, corro il rischio di essere come spesso Secondo …
Non ho mai avuto motivo di fare altro che cucinare, pulire, coadiuvare nell’espletamento dei bisogni corporali, lavare, riassettare e roba del genere con mia Suocera, ma so una cosa, che il 20 giugno, dopo una serie di telefonate sgarbate e violente con Anna Maria, che rimase assai scossa, mio cognato, ex preside dell’Istituto agrario per breve periodo, scuola ove personalmente ho assistito a poco edificanti esibizioni di antididattica (la vicenda di Alessandra Serenari, quella di Rispescia e dell’uso atipico degli impianti igienici e altre di questo tipo amenità agrofile) figlio di Edvige, volle parlare al tramonto da solo con Edvige.
Li sentii ‘conversare’ e poi discutere animatamente … Edvige disse … stai alla larga o rovinerai la Famiglia … poi lui andò via facendo spostare la sponda del letto dopo aver urtato il comodino.
La Famiglia non è ancora sfasciata.
Nonostante le conversazioni pessimistiche che il cognato fa ogni tanto la sera, quando verso le 22.00 viene a visitare Anna in rianimazione.
Non posso che guardare con preoccupazione e angoscia a queste visite da una parte di una persona che la Madre aveva invitato a ‘stare alla larga’ dal nostro nucleo familiare, perché rappresentava una sorta di minaccia per tutto il nostro nucleo familiare formato da Edvige, Anna Maria e me.
Nelle sue rare visite notturne il soggetto, che personalmente ritengo responsabile morale dello stato di preoccupazione costante nei suoi confronti che caratterizzava Anna Maria, non parla con i medici, con cui forse ha altri contatti, ma con me, ripetendo luoghi comuni di bassa qualità sull’operato dei medici, profezie tetre sul decorso della malattia e sinistre previsioni di vario genere.
Conversazioni simili a quelle assai deprimenti che faceva durante le sue rare visite ad Edvige e Anna, quando parlava di pavimenti rotti, finestre rotte, della sua attività di amministratore delle case della moglie, di malattie e di licenziamenti.
Parlare di tali cose ingenera angoscia in chi non può muoversi liberamente.
Anna Maria Maddalena Luigina Vittori sarà sempre la mia prof e il mio Sostegno …
Grosseto, 24 7 2012
gennaro di jacovo
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sabato 4 agosto 2012
Edvige e Anna Maria






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Dalle certificazioni mediche emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli … mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni e della famiglia di origine, presa naturalmente dalle proprie occupazioni ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente allettata di propria iniziativa, badando a ogni esigenza a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate dall’intervento dei chirurghi nel dimensionamento del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali.
Edvige per propria volontà si era rifugiata in camera da letto da quattro anni, nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed economiche, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano, ove è sepolta, e poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
*
Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ‘sedia a braccioli’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
In definitiva, Edvige, che mi voleva bene ‘assai’ , è stata trattata male, o non trattata affatto, da troppe istituzioni e parenti per poter dire ora cha a maltrattarla sia stato il genero.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che Anna Maria, mia Moglie, la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che insieme abbiamo ricevuto da Padre Carmelo l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta …
So anche che grazie alla gentilezza di tutto il Personale dell’efficientissimo Reparto, il cui Primario è il prof Roberto Madonna, ho potuto parlare ore e ore con Anna … che si sta svegliando pianino pianino, come dice lei …
Ieri ho anche incontrato Padre Carmelo e gli ho ritrovato il borsello che aveva perso … questa volta per ricompensa ho chiesto una benedizione normalissima per me e Anna, che è migliorata, con l’aiuto di Dio e della Medicina …
Grosseto, 4 agosto 2012
gennaro di jacovo
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Pubblicato da Gennaro di Jacovo a 00:33


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sabato, 4 agosto 2012
Januarius pro Hecyra sua
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Januarius pro Hecyra sua …
http://ekwitalikus.blogspot.it/2012/08/pro-hecyra-sua.html
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sabato 4 agosto 2012
pro Hecyra sua
pr





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Dalle certificazioni mediche emerge lo stato di infermità di Edvige Mazzoli … mai definitivamente riconosciuto dallo Stato (Inps) e totalmente affidato alle amorevoli attenzioni della Figlia Anna Maria Vittori, peraltro nemmeno nominata accompagnatrice e priva di sussidio alcuno da parte delle istituzioni e della famiglia di origine, presa naturalmente dalle proprie occupazione ordinarie.
La professoressa di Sostegno Anna Maria Vittori si è trovata a dover sostentare una Paziente allettata di propria iniziativa, badando a ogni esigenza a ogni ora del giorno e della notte, fino allo stremo, perché ha sopportato due degenze ospedaliere, tre lunghi interventi chirurgici e somministrazione di numerosi farmaci, fino a essere per intervento del marito sottoposta ad accurati controlli neurologici perché le tossine liberate dai chirurghi nella soppressione del colon, operazione durissima e rischiosa sempre, in genere vanno a ledere organi vitali.
Edvige per propria volontà si era rifugiata in camera da letto da quattro anni, nonostante le esortazioni ad effettuare elementari movimenti, alzarsi e camminare almeno su sedia a rotelle, acquistata anni fa con altre attrezzature ortopediche, gravando totalmente sulla Figlia, una Santa … e sul genero … segregati in casa notte e giorno, eccetto le esigenze scolastiche ed economiche, impediti in qualsivoglia movimento e costretti a trascurare le abitazioni, modestissime, di Arcidosso e Porto Santo Stefano, ove è sepolta, e poco frequentata per questi motivi, Ines Carosella, Madre di Gennaro.
*
Da quando Anna Maria si è ammalata, l’ 11 aprile 2012, il succedersi degli imprevisti, la mancata risposta ad una richiesta di assistenza alla Salus, le continue esigenze connesse all’assistenza ospedaliera ad Anna, mai visitata dai ‘parenti’, il carico totale dei servizi domestici sul marito, non hanno impedito una buona assistenza ad Edvige, contenta dello scrivente e del tenore di vita.
L’esigenza di trasferire a braccia Edvige sulla ’sedia a braccioli’ e le sue intemperanze motorie (vedi certificato) può aver provocato, come la sua tendenza a sporgersi dal letto, che mai ha voluto cambiare, qualche leggero strofinamento, ma in nessun caso la Maestra è stata trattata male.
Edvige si è sempre rifiutata di essere medicata da altri che da Anna Maria, ed in casi di emergenza da me, e del resto non presentava piaghe, ma solo leggere abrasioni, a tratti, dei talloni, per cui era provvista di talloni ere e di un cuscino speciale sparito al Pronto Soccorso o a Castel del Piano, ove è stata portata presumibilmente la notte del 29 giugno, senza alcun avviso a me o alla figliola Anna Maria.
In definitiva, Edvige, che mi voleva bene ‘assai’ , è stata trattata male, o non trattata affatto, da troppe istituzioni e parenti per poter dire ora cha a maltrattarla sia stato il genero.
Non so come finirà questa storia di generi e di suocere, ma so che Anna Maria, mia Moglie, la mia Professoressa di Sostegno, adesso, è in Rianimazione, che insieme abbiamo ricevuto da Padre Carmelo l’estrema unzione, perché tutto abbiamo fatto insieme, e che vorrei essere primo rispetto a lei ad andar via da questa specie di pianeta …
So anche che grazie alla gentilezza di tutto il Personale dell’efficientissimo Reparto, il cui Primario è il prof Roberto Madonna, ho potuto parlare ore e ore con Anna … che si sta svegliando pianino pianino, come dice lei …
Ieri ho anche incontrato Padre Carmelo e gli ho ritrovato il borsello che aveva perso … questa volta per ricompensa ho chiesto una benedizione normalissima per me e Anna, che è migliorata, con l’aiuto di Dio e della Medicina …
Grosseto, 4 agosto 2012
gennaro di jacovo
§
pr





Pubblicato da Gennaro di Jacovo a 00:20


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mercoledì, 11 luglio 2012
marcet sine adversario virtus&est modus in rebus
Ruphus
Mito&rinascimento
…sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt…

… rerum cognoscere causas …

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martedì 28 febbraio 2012
anno millenovecentonovantasei
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§§… marcet sine Adversario … Virtus …
ad liberales artes … Mater … redi …
illae sanabunt vulnus tuum …§§
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« Hirundo
domenica, 13 dicembre 2009
Dilexi Justitiam odivi iniquitatem
propterea quod vivo in Maremmae Capite
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Colle Ginestra Antonines
Synthagma Argos Foundation
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De Urbis Telluris Licaeo …
• Nel 1996 lo scrivente fu assegnato come Coordinatore delle Biblioteche distrettuali al Distretto 37 in Orbetello GR dopo aver redatto per tutto l’anno precedente come Referente nel ’suo’ Liceo orbetellano della Usl 9 e come Incaricato del Collegio dei Docenti dello stesso Liceo Classico Linguistico Dante Alighieri in Orbetello GR la Charta (Carta Karta?) dei Diritti e dei Doveri nella Scuola, con apprezzamenti personali lusinghieri della Tecnica della Scuola e del Professor Piero Cattaneo dell’ Oppi di Milano, di cui conserva una lettera elogiativa, allora collaboratore del Ministero PI Luigi Berlinguer nel Governo di centrosinistra presieduto da Romano Prodi, da cui venne anche una gentile lettera di saluti e complimenti relativi alla sua … ”attività di professore poeta …” …
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Nello stesso periodo aveva ricevuto lettera dalla Segreteria del Vaticano con la benedizione del Pontefice Giovanni Paolo II … (apostolicam benedictionem tibi tuisque…) con la presentazione di Giovanni Battista Re, emerito Cardinale, che gli assicurava … il Tuo Plico è regolarmente giunto al Santo Padre … aggiungendo un saluto benedicente a nome del Nostro Papa Karol.
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Nel ‘plico’ erano contenuti gli … appunti del Padre, Antonino, su un ormai abbastanza noto argomento (voce Google: quaderni di Antonino di Jacovo gldj).
§
Qualche anno dopo, nel 2004, dopo aver scritto numerose relazioni e lettere sul tema delle biblioteche, dell’ insegnamento in genere, del clima generalmente decaduto nelle nostre Scuola e della questione dell’ assegnazione alle Biblioteche scolastiche, ricevette il riconoscimento delle ore impiegate per la stesura della Carta \ Karta \ Charta dei Diritti e dei Doveri nella Scuola, ratificata come pare solo nel 2000 dal Liceo Dante Alighieri di Orbetello e quindi nel 2003, a otto anni dalla definitiva stesura, completata dalla ratifica ultima.
Lusinghieri apprezzamenti scritti erano giunti dal Presidente Ciampi.
§
Gli rispose gentilmente anche il compaesano Senatore, poi Deputato, e Giudice Antonio di Pietro … ( … il consiglio che mi sento di darti è di non arrenderti mai … nonostante le incomprensioni dei colleghi … e di svolgere il tuo lavoro con correttezza e competenza …) … incontrato poi personalmente a Porto Santo Stefano, presso il Municipio ove Antonino di Jacovo era stato Segretario Capo e poi Generale, che volle sentire per sottoporsi ad una specie di esame …
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Attualmente, dopo che tutto il suo lavoro per il ‘popolo studentesco’ è stato riconosciuto, vive e ’studia’, collaborando a Ksantomo, suo blog di Repubblica, e a numerosissimi blog con account Google, Wikipedia, Virgilio, Libero, Twitter e Facebook, in Maremma, a casa di sua Moglie Anna Maria, attualmente docente di Sostegno alla Scuola Giuseppe Ungaretti.
confer: donapaideia
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Ksantomo di Gennaro di Jacovo
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Le esperienze scolastiche del prof in questione, che non ha mai interrotto rapporti di Amicizia con numerosissimi e stimatissimi Alunni dell’ancora carissimo Ginnasio Liceo Dante, sono leggibili a:
donapaideia gldj
enkyklopaideja …
enciclopedia di Donatello
http://donapaideia.blogspot.com
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Grammatica contestuale di Gennaro di Jacovo§§
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Pubblicato da Gennaro di Jacovo
oppure semplicemente in …
gennaro di jacovo
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Scritto domenica, 13 dicembre 2009 alle 14:37 nella categoria Arte e cultura, Attualità, Finanza - Economia, Gossip, Lavoro, Media e tecnologia, Popoli e politiche, Scuola, Solidarietà, Sport, streptopelia.
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donapedia
donapaideia
enkyklopaideia
§
enciclopedia di Donatello
cerca un termine, es. mito
SU UN MOTORE DI RICERCA come Google …
… seguito dalla sigla. gldj
















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kataweb Ksantmo Ksantomo gldj
Ksantomo
Gennaro di Jacovo
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venerdì 27 luglio 2012
poesie per Anna e la mamma
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le foglie del nespolo gldj

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Pubblicato da Gennaro di Jacovo a 04:34

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Gennaro di jacovo Grosseto

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Alek Sander

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venerdì 12 agosto 2011
le foglie del nespolo




gennaro di jacovo






le foglie del nespolo






forum livii quinta generazione 1984
rosetum argos&ruphus editori 2004










Al lupo! …



Perché sono uno che troppe volte ha gridato
“al lupo!… al lupo!…”
povera pecora perduta nel mare dei kissà.
Si accendono luci sulla terrazza del Corvo
ma hanno tagliato la mimosa
e il Sole secca e brucia senza sosta


La Grande Casa se ne sta muta
col suo vecchio tetto crollante
aspetta solo
una famiglia perduta

Quante voci ha sentito
il suo vecchio pavimento
è pieno di passi sonori
e le sue mura
grondano ricordi



Mio Padre non ebbe
mattini passati a cercare
pigne da ardere e origano:
passò le notti a scrivere e sognare

Poi vide il Mare e se ne innamorò

Adesso che fischiano i merli
voglio sentirli kantare
mentre ormai tace
il Mare


Amarkord:


Entrammo spauriti e spavaldi nel ristorante romagnolo
entrammo spauriti e spavaldi
nel ristorante romagnolo
e sotto il tovagliolo
ritrovammo ogni ricordo



Aveva il viso bello e la cravatta a stelle
quando ci salutò l’ultima volta.
I phunghi non erano avvelenati
né salato il conto.
Lo conservo ancora



Tu avevi una maskera appesa
dorata meno smarrita
Io ero Sugar Louis
alla tredicesima ripresa
quella vincente:
non avevo dente
che mi facesse male
macinavo parole
dicevo
tutto con grande coerenza
e avevo grandi ali
distese dietro le spalle
rosse e gialle
pronte a volare lontano

avevo
un’aria di lupo satollo
come per quell’Animale di Apollo



nulla
spingeva la mia nave
al di là dell’atollo
delle anguille
cotte a puntino.
“Luigino!…”
(la cosa sapeva di Gozzano!)
“lo prendiamo il dolce?
E il kapphé?
Domani hai degli impegni
bisogna che ti svegli!”


“Lo sono – amika mia –
solo se non dormo”.


Gli altri – attorno –
sganasciavano lieti
la phontana era muta
senza più pensieri. Seccata
asciutta e triste.

Forse un po’ scocciata.
Troppi incendi.
“Però non è normale
- diceva uno al cuoco –
che debba esser senz’acqua
proprio la phontana
di chi ci toglie il fuoco”.

La cena fu stupenda.
Il giorno dopo
- anche se riluttante –
volò Kwel
nostro aliante



Angoscia





sotto le croste secche
di carta
sul muro cadente
nella stanza celeste
come ricordi antichi
crepitano
strisciando piano
gli scorpioni


con grido forte di angoscia
la bambina fugge
se ha visto
o ricordato
uno scorpione
il padre accorre
e cauto
quasi con rimorso
schiaccia la bestia
ancora crepitante

sul pavimento
di pietre quadrate
tra scarpe rotte
e vecchi tappeti
piccoli pezzi neri
di scorpione
ti guardano
muti




Arance (aranga!)




Sfumò cullandosi dietro le ultime stelle
dell’autunno il piccolo furto
di sale
e la luna sfiorando i cipressi
e gli arbusti bruciati
pareva una palla di marmo
celeste

Gli amici partirono
con le loro gialle facce pallide
e le guance piene di prudenza
e mi lasciarono
scrollando le spalle incavate

A Kwal Kuno spedii la foto
della mia tomba

… d’inverno puliamo accendini
fatati
e rispolveriamo
giacche a vento.

Kwal Kaltro
mangia persino arance
per non avere starnuti

Lassù Kwal Kuno
nella nebbia e nella poltiglia
di neve e di fango
le mangia solo
perché sono buone




Caelm stellatum novembre



Così nelle notti d’inverno
S’alza il gigantesco Orione
Verso le Pleiadi
(le oche migrano a Novembre)

tu Betelgeuse
Alpha di Orione
Splendi lucidissima
(l’anatra guida la freccia pennuta)

tu, Antares, tu
che sorridi lontana
(scamperemo ai massacri dell’estate)

tu, soave Deneb, Alpha del Cigno
viaggi oltre la luce
di seicento anni
(non cade più nel barattolo dello zucchero)

più vicine
la lucente Altair
e la fulgida Vega
(ci vediamo alla Madonna del Fuoco)

e tu piccolo Sole
così abbagliante e vicino
adesso lasci vedere
assente australe
le Grandi Sorelle lontane





A Cecilia da-da



Cecilia
per te almeno della festa non sia
più bella la vigilia.
Tre piccole posate di ghiaccio
e tu rispondi con poesie da-da
negli occhi d’argento

Le ire ho scaricato
sopra un fiume calabro
secco d’Estate
per non dirigere altrove
inutili parole



Si torna a parlare d’Apocalisse.
Ma ormai noi siamo
dopo l’Apocalisse

Noi non abbiamo più
dèi né eroi
né le Phate d’un tempo
né Miti

Ci bastano
solo pochi Gesuiti

… …

Ma per Te almeno
Cecilia
della festa più bella non sia
la Vigilia
E’ bello vedere


è bello veder camminare i piedi
nei loro sandali di pelle marrone.

Quanta strada ho fatto
senza mai camminare
e quanto ho camminato
senza mai spostarmi di molto
per trovare gli occhi diritti
della mia spada ricurva

E’ bello vedere camminare i piedi
nelle loro scarpe di tela avana.
Il pomeriggio che viene intorno
alla mia pelle
mi ha detto stasera:
devi amarla lontana
e fuggirla vicina.
E’ già pronta la bisaccia
per la tua partenza:
essa si avvicina.

E’ bello vedere camminare i piedi
coperti di stivali scamosciati.
Perché Tu hai riso
quando il tuo Amore piangeva
poiché tu hai pianto
se lui rideva
alta sarà l’erba
della tua amarezza
è’ bello vedere camminare i piedi
nelle scarpe di gomma per la pioggia,

Il tuo albero lo hai troppo tagliato
e i suoi frutti cominciano a scarseggiare
adesso che Tu hai sete
lontano è il succo del kaktus …
E’ difficile dire, adesso


E’ difficile dire, adesso, ciò che sei stata.
Idea, forse, chimera fragile.
O speranza.
Oppure una risposta mancata
o una domanda sciupata
fra i tanti “non so …
non è il momento …”
caduti sopra il pavimento
dei nostri “come stai?”

Forse eri quel quadro che attende i colori
sopra i Piani di Studio della Scuola
o quel disco che compro ogni mattina
a cui manca la musica che amo.
forse eri la nebbia che rischiara
o l’umida lumaca con la scia
così argentata.
o quella fetta di kokomero
da mangiare l’estate passata.
O quella manciata di anguille
Che non si fermeranno nel mio piatto.

Forse eri quel gatto
Quella stella cadente
Forse quel bambino
Che ero e che non sarò.

E’ difficile dire adesso quello che eri.
Una voglia di scrivere o strappare
Oppure tante parole amare
Rientrate nella bocca della penna.

Una verde custodia Olivetti
Piena di chiacchiere d’amore
Di foto e cartoline.
Una fila di nere mattine e notti insonni

Passate con gli occhi bruciati
A fissare le palpebre.

Eri forse la vita
Che mi è sfuggita.
O la morte insidiosa.
Oppure quella rosa che non so più mandarti.

Eri forse il disprezzo
Che ho di me stesso?
O un dono immeritato?
Eri tu dunque
Quanta tenerezza
Dell’esercito della salvezza?
O Demone? O Strega Cattiva?
Oppure incoscienza giuliva?

Quante cose non eri
Neppure saprei dire o pensare.
Non eri l’onda del mare
Che ristora d’Estate ma nemmeno
Sabbia cocente.
Non eri veleno e nemmeno elisire di vita.
Forse tu eri … Forse …
Ti eri smarrita!
Nel Bosco delle Perplessità?
O in quello delle Certezze?


Adesso
Mi scrivi da tempo
Ma non mi tieni più testa
In questo poco che resta
Dell’ansia che fu
Sugo salato alterno
Del mio Passato Inverno.



Essa verrà dal mare


Stasera un vento freddo mi scompone
i capelli e spruzzi d’acqua salata
mi spingono lontano dalla riva.
Troppo fredda questa sera
per essere una sera d’estate.

Tutte le nostre parole
le porta via questo vento
mentre mi tuffo
nei nuovi libri sereni
e chiari.

Tu non mi aspetti più
ma nemmeno mi cacci via
e ti penso nelle tue Fiabe
con gli orsi e le Fate
e i draghi che sputano fuoko …

Kwi
nella mia kapanna nel bosko
aspetto il tramonto e la phine
con la mia gialla veste.


Essa verrà dal mare coperta di tristezza.
Essa verrà nuotando come un’anguilla.
Essa verrà strisciando come lumaca.

Essa verrà col tuo sorriso obliquo.
E mi parlerà guardando i miei piedi
ed io sarò come un breve ricordo
volando via sul suo dorso.




Fila strokka







Nella sera c’è una stella
(brillerà fino al mattino)
sogna e pensa gatta bella
pensa e sogna un bel mastino

Quando non ci sarà stella
nelle notti lumacose
quelle notti assai lunose
cercheremo mortadella.

Forse insieme e forse no
qualche volta è troppo tardi
anche per noi gattopardi
fermi e quatti nel comò.

Quindi Zorro stai distante
le burrasche van domate
anche se le hai provocate
col tuo deltaplanoaliante.

Superman alla riscossa
coi suoi muscoli d’acciaio
vola in alto forte e gaio
dalla bella Isola Rossa.











Granturco forlivese




Sopra i dolci vigneti oltre il fiume
tra gli alberi neri svettanti
oltre la pianura
i tuo occhi si posero
nella mia sete
e mi guardarono canzoni
volarono alte
con tenui note
e si parlava di Dio
mentre cercavamo un vino raro
irripetibile

Fu buono quel lambrusco
strappato alla coda
d’una Estate agli sgoccioli.


“Non scrivermi …
e mandami quei libri …”

Tu
Pannocchia di granone dorata
a me strega perduta
nel conto dei tuoi chicchi.











Il canto della morte





Non aspetto che la tua assenza germogli
per questo non dare voce
alla tua succosa disperazione

In questo tiepido pomeriggio di Aprile
mi sento come un veliero senza vento
cadute le sue gialle stoffe
stanchi i suoi nerboruti marinai
floscia l’acqua che intorno
intona il canto della balena

Bastò un leggero soffio
un tempo per lanciarmi sopra le onde
e precipitarmi nei gorghi più cupi
e azzurri

Adesso
forse un uragano soltanto
mi ridarebbe la vita

Ma è meglio stare qui
in alto mare con questi bianchi
uccellacci che svolazzano
intorno intonando
un dolce canto di morte tardiva
un dolce canto di volpe argentata










Il Generale

Hanno lasciato solo il Generale a morire nella sua stanza dei ricordi
hanno lasciato solo il Generale a morire nella tenda dei ricordi
hanno lasciato solo il Generale a morire nella sua onda dei ricordi

Il Generale ora ha tutta la sua Rotondità
Il Generale ora sbadiglia disegnando un mandàla!
E non indossa più la sua casacca sbiadita
ed ha fatto la pace d’Africa
perché ora tutti indossano casacche d’Africa italiane.


Hanno lasciato solo il generale a sorridere sopra le sue proiezioni.
Hanno lasciato solo il generale in preda al suo Es ormai pacifico.


Il Generale ora sorride
sorride e si asciuga una lacrima
vorrebbe scriverle
ma non trova più il suo mittente
così prende la sua penna
senza parole e scrive a se stesso:


“Caro vecchio buon Generale
che sai nuotare sopra gli oceani
che sai passare sotto la neve
la tua casa è sotto la sabbia”


Hanno lasciato il Generale solo
solo come un albero dentro un bosco
a morire nella sua tenda remember
ma prima deve trovare la sua ombra




Sta frugando nei suoi cassetti
il Generale mette tutto a soqquadro
e trova vecchi oggetti scordati
ciuffi di capelli e biglietti variegati.



E sorride nella stanza – sorride e piange –
rivede ancora quando partì soldato
e la sua donna venne a trovarlo
con doni e un pacchetto di fumo
ma aveva quasi otto anni di ritardo
e lui era partito per l’Africa
l’Africa
l’Africa
l’Africa
l’Africa



… …


Africa dolce Africa amara
Africa dune dorate e banane
Africa uccidere con le parole
Africa scrivere e fare frittate
Africa sempre
Africa mai
Africa dove ti cercherei
Africa prendimi e fammi volare
in fondo al mare
… … …
in fondo al mare




Il mare morto


Tu ancora curva la mano
sui capelli rossi
scendi
la strada in fondo
al precipizio:
il mare
ti saprà fermare.

Le foto intorno
hanno una carta bianca
avorio
e una cornice dorata

da piccolo
non rubavo marmellata
rubavo la conserva
dei pomodori

Mentre scendi al mare
di fronte a me
con la mano agiti un addio
lontano

Di notte quando il rombo
del tuono squassa i vetri
della finestra che guarda il nespolo
e il lampo abbaglia
improvviso e l’abbuffaglia
delle nubi scende dal cielo e crolla
nella notte e soffoca la luce
io penso a dove
quella via
conduce.




Il mito è finito







Il prophumo del Mito
è phinito
sul dito e sulle caviglie.


Conchiglie
cercavi.
Scrivevi
meraviglie.

Essi sono fra noi.
Li ho visti
cadere con una stella.
Cadere
su stelle di pelle
li vidi.






La gente distratta
cercando una gatta
ha bevuto cicuta
ed ora starnuta
ed è muta.




Il Premio



Tu non c’eri a Ravenna ieri l’altro
alla festa dei poeti
tra arazzi e tappeti danzanti
c’erano in tanti.
C’era una Poetessa sapiente
a cui mancava solo
la Parola
e c’era la pianola
e una vecchia signora
con un coro d’angeli
e c’era Garibaldi
senza poncho e cavallo
ma sulla sua Renaut
era inarrivabile lo stesso
(per un attimo
mi sono sentito Bixio)

C’era un poeta spagnolo
sudamericano
e c’era il Direttore.
C’era anche Phann
col suo lontano Amore
chiuso nella borsetta
e leggeva la Poesia che parla di Te
così bene
che tutti avevamo scordato
- ma forse non lo sapevamo -
che lassù – lontano –
pare a Milano
Eugenio se ne andava
in silenzio.

Piano.






Immagine






Nel cassetto la vidi sorridere muta
Fra le carte aride di Argan
E di Odisseo politropo
Quasi un fantasma grigio e lucente
Piccola speranza
Messaggio d’amore
Enigmatico
Quasi una
Elucubrazione
Di Chomsky
Persa nell’infinito
Di quel piccolo spazio
O futile scherzo
Di due anime
Senza parole
















La donna e la sua ombra

La Donna pianse per buona parte della Notte
quando s’immerse nell’Onda dei Ricordi
con tutto il torpore dell’animo
e corse fuori all’aperto.
Il Sole era tramontato
e la sua Ombra era Konphusa
fra le altre Ombre.
Ma ne sentiva lontano il respiro
e allora la Donna chiamò la sua Ombra:
“Ombra – disse e gridò –
Ombra, allontanati dalla Notte
e cercami
perché non so stare senza Te!”

Ma l’Ombra bisbigliava lontano
perduta sul Promontorio Perduto.

“Ombra! Ti darò ciò che vuoi!
Tramonti e cieli arancioni
con frutti squisiti! ,,, Vieni! …

Ma l’Ombra sussurrava lontano
confusa tra le cose confuse.
Allora la Donna si diede per Vinta
e cedette la sua bisaccia di riservatezza
poiché si sentiva scivolare addosso la vita
come una grossa Anguilla Sfuggente.


“Ombra! … Parlami! …
E’ pietra dura questo silenzio!
Bestemmiami, ma parlami!”

Di lontano veniva insistente frusciando
il sorriso strisciante dell’Ombra.

“Ombra!… Ombra!… Ombra!…
Che tu sia dannata per sempre!
Ti lascerò nella Notte
confusa fra le altre Ombre!
Ti lascerò ai Lupi ed al Vento!


Non ti aprirò mai più
poiché Tu non mi vieni accanto!”

E la Donna che aveva i capelli
come due amanti stanki
corse nella sua capanna
e accese la lampada
per guardare negli Occhi
l’odore della sua tristezza.


E seduta ai suoi piedi
vide l’Ombra
e sentì le sue Fruscianti Parole:
“Tu mi cerchi lontano – Donna
ed io abito nella tua kapanna”.

Allora la Donna spense la lampada
e non vide che la sua Ombra.
Tutto era Ombra.
e nemmeno poteva vedere i suoi okki.


Allora si tuffò in quell’oceano Bujo
e lo trovò nero come la sua kapanna
quando la lucerna era spenta.







Laggiù oltre la schiuma










Laggiù oltre la schiuma di questa marina
danzano grandi uccelli d’aria
sulle ginestre azzurre
e l’acqua del mare è mobile:
s’alza in grandi onde oblunghe
graffiate da unghie di gatto sulla cima.



Invece qui davanti il mare è sereno
non sa nulla di cassa integrazione
e di tesi di laurea
e sussurra appena qualche sillaba.



















Lettera al Nord











Ciao. Non scrivi più. Da tanto.
Qui l’inverno è tornato
tra gli spruzzi del mare e le folate del vento

(((la notte due gatti vengono a dormire
sulla rossa trappola)
da Firenze
i libri tardano ma so che verranno)
l’Amiata
mi aspetta bianco di neve)
il tuo prophumo slitta:
si dissolve piano nel fresko
della stagione del raccoglimento
e c’è un nuovo bollo
per i nuovi studi.


La lumaca non ha donato
la sua roulotte per la terra che balla
e l’anguilla senza cagnina
ora nuota nel Mar dei Sargassi.
Nella laguna che traverso ogni mattina
quei pesci che sai li chiamano
‘Anguille Sfumate’.







Luglio di mattina








L’Afganistan lontano geme
sibilando pallottole amare
e Carter si allena
con le sue gialle vesti.
Sapere?
“Il sapere che lo stolto acquista
non è a suo profitto
ne rovina la sorte e spezza la testa”.
Oh Tu! Scetato Profeta Buddho!
Estinto! Tu primo di Asava.
Puro nella Tua Vinnana.
Dove esaurire la nostra
paticca samuppada?

Le tue poesie dolcissime
quell’accostamento di indocili fonemi
e quegli occhi nel piatto
e Tu – e Tu – e Tu
così azzurra marina.

Il caffè sapeva di sale
l’amico si alzò
pensava a uno stupido scherzo
invece eri Tu
caduta nel barattolo dello zucchero






Luna







Poi mi lasciasti solo con la mia vittoria
piazzale En Tò Alamein rosseggiava
triste di luna
e una donna si stropicciava gli occhi
guardando la bouganvillea.

Sul mare la luna
dopo poche atmosfere
mi diceva
guardami
perché fra poche sere
tu ci sarai
ma io sarò lontana.

Oggi a skwola
c’era un banko vuoto.
Mentre parlavi
ti aggiravi per i corridoi
con una lettera
e una ciocca di capelli rossi.
La strega ero io
perduto nel tuo granturco rosso
e nella tua phascina
senza numeri.







L’uomo dell’oasi

l’uomo dell’oasi si è bagnato di nuovo
nel sangue di drago
e nessuna foglia è caduta
sopra le sue spalle.

La prima volta ignorava
la sua prima funzione
ma adesso egli conosce
la sua Prima funzione Superiore.

La seconda volta ignorava
la sua seconda funzione
ma adesso egli conosce
la sua seconda funzione.

La terza volta ignorava
la sua terza funzione
ma ora egli ha capito
la sua terza funzione.

La quarta volta aveva la faccia
della sua quarta funzione inferiore
ed egli ora guarda negli occhi
la sua Anima.

L’Uomo ha imparato a conoscere la sua Ombra
ed ha quattro lati il suo Mandàla Variegato
egli ora è un uovo kosmiko
e naviga nel Mare Galattico
della Tranquillità.

Egli ora scorge Lontani Promontori^
ove si projettano fasci di Ombre
e s’infrangono le Onde dei Ricordi
dove non cade raggio di Luce.
Egli è Colui che è Libero
e vuole essere l’unico abitante


della sua baracca di solitudine.

Nel suo deserto si è fabbricata una capanna
con penne di gabbiano e becchi di anatra
e fuori è la kalda notte arancione dell’Afrika.

Egli ha prevenuto tutti i suoi bisogni
e l’Ombra vive in una stanza accanto.

Talvolta prendono il thè
e li assale l’ondeggiare della rimembranza
loro allora lo coprono di zucchero
e girano in tondo i kukkjai di latta.

Talvolta la sua Anima ulula lugubremente
“Voglio un oggetto! …”
e lui l’akkatetza con il suo braccio di kaktus
e le dice:
“Esci pure kwesta sera
perché sono una Persona Tollerante
e indosso la Maskera Phalsa.
L’Oasi + vicina è a sole 30 miles.
Non phare tardi, Animula,
il tuo Pomeriggio è Vicino”.
L’uomo disegna i suoi Mandàla sulla sabbia
- hanno una forma simmetrica
e kapelli come un assolato mattino –
sono come il dagherrotipo della sua Ombra di Luce
e della sua Rotondità Spigolosa –
Ogni tanto l’Uomo del Deserto
accarezza con le sue Mani di Gatto
la sua amika Volpe Argentata
che si chiama Djapo
- ma lui la chiama ‘Aranga’.



L’uomo e l’ombra



Un giorno l’uomo – che era uscito
per sottrarsi all’urto dell’ “Onda dei Ricordi” –
incontrò il suo Wawao – la sua Ombra –
e così parlò l’uomo al suo puer obscurus aeternus.

“Tu continui ad uccidermi
e a darmi la vita.
Il tuo veleno mi è letale
ma mi sono assuefatto.
Con te vedo molte Ombre
che preferirei ignorare.
Non voglio essere il tuo Totem
la tua sorgente esogamica.
Non voglio – Ombra –
l’ombra della tua Ombra”.

L’Ombra se ne andò quando il sole
fu alto allo zenith. Era il primo pomeriggio.

Il giorno dopo l’uomo
di nuovo fu preda dei Ricordi
e fuori dalla sua Casa incontrò
la sua Ombra.
E così dunque l’Ombra parlò all’Uomo:
“Ascolta – Uomo – ascoltami.
Se tu resti fermo
avrai sempre la tua Ombra
tranne per brevi attimi
se sei sotto il sole a picco
o ti chiudi nel tuo covo.










Ma se tu non vuoi la tua Ombra
a farti ombra
guardala bene e riducila a poca cosa
camminando sempre
verso Occidente
passando le sponde
e le onde e i ghiacciai
camminando sempre
verso Occidente
passando le sponde
e le onde e i ghiacciai
camminando e nuotando.


Solo così per te – solo –
sarà sempre la Vita
un Giorno senza la tua Ombra.




E l’uomo sedette
e vide la sua Ombra
sedersi con lui
enorme fino all’Orizzonte.
Ed era l’ultimo pomeriggio
prima del calare delle tenebre.









Mantova ’80






Anche a tavola
la cultura ha invaso il tuo piatto
il cibo era immangiabile.

Io non sono riuscita a parlare
perché tu – assente – pensavi
e non parlavi.

Se amore dichiari amore
devi esprimere
se rabbia senti rabbia
devi esprimere
se conflitto provi conflitto
devi esprimere.

Ma il silenzio è nulla.
Ora Luglio è agli sgoccioli.
Le lezioni
la scuola, poi, gli esami e la casa.

Incomincia il caos.














Mantova ’80 – II










In macchina parlavi di Gramsci
ti seguivo ma capivi che stavi
sostenendo un esame. Ma quale?
Non c’è anche troppo impegno nella tua vita?
Ed io ti chiedo, al di là di ogni frase,
dov’è l’uomo Genna, l’hombre che conobbi?
Dove si è seppellito? Chi è? Dov’è la sua mente?
Tutte quelle letture che fai, non ti aiutano,
se non ti deciderai a cambiare ottica,
e continuerai a vivere al di là della realtà,
lascerai di te l’impressione di un uomo
che ha tagliato i ponti con l’esistenza.

Aristotele non porta lontano.
A meno che tu
non desideri arrivare in Paradiso.
Ma anche in me c’è abbastanza distrazione;
al tuo arrivo non ti ho neppure chiesto
se avevi trovato un alloggio,
così ti sei ridotto a girare di notte.

Ma perché non parlare?








Mattino a Luglio




Sta per crollare il tetto
della Grande Casa dei Gatti.
Ieri nel posto dove faccio il bagno
è annegato un pompiere.
(Tu hai paura della mia persona
ti terrorizza ancora l’idea
di nominare nostre notti lunose?).

Io qui chiuso nel mio carrarmato
di latta come un uovo di plexiglass
(nella piccola stanza dei giocattoli).
Ah! l’ampia distesa del mare
e le azzurre colline.
Bill, amico di Chinaski.

E tu, Guido, che aspetti?
Aspettando Karpinsky
- e tieni in tasca per Louis
un pacchetto di Gauloises -
tu agiti un nòstimon èmar
inarrivabile.

E tu scrivi poèsie!
“Il Poeta è cosa leggera, alata, sacra”.
Ciao!
e per le strade fangose oppure
senza più nebbia
non perderti
mia Kara Mousa!





Mattino a Luglio




Sta per crollare il tetto
della Grande Casa dei Gatti.
Ieri nel posto dove faccio il bagno
è annegato un pompiere.
(Tu hai paura della mia persona
ti terrorizza ancora l’idea
di nominare nostre notti lunose?).

Io qui chiuso nel mio carrarmato
di latta come un uovo di plexiglass
(nella piccola stanza dei giocattoli).
Ah! l’ampia distesa del mare
e le azzurre colline.
Bill, amico di Chinaski.

E tu, Guido, che aspetti?
Aspettando Karpinsky
- e tieni in tasca per Louis
un pacchetto di Gauloises -
tu agiti un nòstimon èmar
inarrivabile.

E tu scrivi poèsie!
“Il Poeta è cosa leggera, alata, sacra”.
Ciao!
e per le strade fangose oppure
senza più nebbia
non perderti
mia Kara Mousa!




Metamorfosi








Per te fui forse Attila che passa e non ristora
o forse Febo Apollo che soffre nell’ancora
fui gatto e fui scoiattolo. play boy e lo Scetato
fui Dioniso, fui Pegaso, fui Ermes nel creato.

Fui Baldo e fui Biancone con quel ciuffo di meno
che Tu conservi ancora tra l’uomo e l’elettrone;
fui limite e confine, deserto e forse oasi,
non so, ma Tu dimentica, possiedimi alla fine.

Per te fui certo multiplo, fui come un carrarmato
(si, un tank, però di plastica, col suo cannone alzato).
Fui ospite e soldato, fui anche innamorato:
odioso e petulante, fui zuppa e panbagnato.

E adesso nella notte, mentre la Luna splende,
la fine del mio tempo nelle tue guance accende
un piccolo lumino che ti rischiara tutta:
la pioggia ha rovinato per Voi tutta la frutta.











Montgomery for me



Nella piccola città dalla lunga torre
non erano pronti per me gli Stivali:
nella sera girava per l’aria
odore di legna bruciata.
Delle due chiesette
una sola era aperta.
Tu che parlavi con me non capivi:
ti sembrava phorse di essere
kaduta in un presepe phinto?

Solamente 30 anni pha
Kwal Kuno mi donò un montgomery
color kammello.
Stasera a Portobello
un Kasual Shopping
ne ho trovato uno blu notte
e subito il cappuccio
mi si è phikkato in testa.

Shouldn’t you have the answers?

In queste sere di vento
che il Mare sembra kosì ostile
hanno paura persino i Gabbiani
a volare.
In queste sere divento
come un vekkjo veliero in disarmo.
E mi sento
come una vecchia ruota di scorta.
E’ l’ultimo
dell’anno.
Phinisce
un Altro Affanno.



Nel bosco equinoziale


poi tra le brume e le sterpaglie
sulle nostre passate stagioni
nelle nostre parole venali
con le guglie e le cupole
delle celesti basiliche
fra le rose
le viole
i crisantemi
fulgida sopra tutte le stelle
più alta della cima più alta
sulla punta delle veloci plastiche
negli smaniosi contenitori dei piedi
sopra le bretelle traslucide
e plurali più misteriosi
fra le zampe dei gatti
e i vetri degli occhiali
più brillante di ogni parelio
di ogni paraselene
di ogni sole

più splendida della speranza
e di ogni disperazione
più voluttuosa e cocente
più fresca di ogni sorgente
corrente dietro le Pleiadi
preceduta da Aldebaran

apparve
la candida Rigel
e Betelgeuse esplose
mentre Sirio
la più lucida stella
galoppava lontano con Pegaso …




Nella mini phoresta boliviana



L’inverno è passato
sopra le cime alte dei cipressi
quaggiù dove non arriva il suono
delle kampane molisane.
L’inverno è passato come un lungo
addio che mi è giunto
in questo nostro maggio
ormai tutto koperto di ‘no’.


C’eri anke Tu con la tua koppa rikolma
di negazioni
di phutti mousy-kalj
e di piante tropikali
con i tuoi colpi di sonno
(i bambini ti fanno gridare?
O è l’aria della bassa
mentre kantano le raganelle
e la nebbia cade sull’Ariete
d’argento).

L’innesto non ha phuntionato
e tornando da Venetia
era bruciato il nespoliegio.
Tutto il resto verdeggia
nella miniphoresta boliviana.










? ? ?












Non Guerra vogliamo ma Pace
noi siamo i Bronzi di Riace
- sussurra la statua giuliva
- che non ha pagato mai l’ I.V.A.

666
999

la Vita che fugge rapace
mi fece assai poco loquace
per questo non trovo mai pace
e sono quel bronzo
che tace.

















Non passa niente






Tutto accade così
Velocemente.
E il guaio è che non accade niente.
Stasera il tempo è kupo.
Miagola il vento
Lontano ulula il Lupo.
Il cielo
È greve
E breve
È l’ora.
Ma so
Che altrove cade
Neve.


Bianca.
Fresca.
Sa di vento.
Tutto passa così
Velocemente.

Ma il gwaio è che qui
Non passa niente.











Okkio di pace











Io sono
quel bronzo di Riace
che guarda con okkjo rapace
ma in fondo ti offre
la Pace!





















Parliamo di rane





Le ultime tue parole erano di Ranokkjo
e inesistente, per di più.
Con immutato affetto salutavi
in me quello che fu
un iperglottico amante
o forse un ipoglottico
incostante.


Qui affoghiamo dentro regole precise
di Grammatica Greca
mentre intorno la Gente che sa
vive accendendo Mootooy
e compra compra
compra …
la lira è in difficoltà.


L'incontro di Tennis
non si è fatto.
La maglietta è di nuovo
nel suo armadio.
E tu
sempre chiusa
in quel tuo blaterare
ad altre orecchie
aperto.









Peldigatto








cadde sul cuore dei peli di gatto
spuntati a ciuffi sotto la luce
della luna
e subito il fango della sua anima
divenne pudore e si cambiò
kome phosse un vegetale.

(la donna guardava il sole cadere nel mare
e diceva sommessamente “addio!”
forse perché aveva un gusto votato
all’intensità dell’ultimo momento).

I gatti ti guardano
e aspettano la tua mano
ke li akkaretzi
oppure un bokkoncino saporito
per phabbricare i loro peli di gatto.













Parliamo di rane





Le ultime tue parole erano di Ranokkjo
e inesistente, per di più.
Con immutato affetto salutavi
in me quello che fu
un iperglottico amante
o forse un ipoglottico
incostante.


Qui affoghiamo dentro regole precise
di Grammatica Greca
mentre intorno la Gente che sa
vive accendendo Mootooy
e compra compra
compra …
la lira è in difficoltà.


L'incontro di Tennis
non si è fatto.
La maglietta è di nuovo
nel suo armadio.
E tu
sempre chiusa
in quel tuo blaterare
ad altre orecchie
aperto.










Pensieri d’un bronzo nel cassetto






In un grande cassetto bucato
d’un vecchio armadio tarlato
ho testé ritrovato
la foto d’un Bronzo di Riace
che non si vuol dare più pace
perché Tu sei poko lokwace.


La gente che ama è rapace
e parla con lingua salace
talora con verbo mordace
ma il Bronzo ama solo chi tace
per questo non trova mai pace.


La statua era un tempo giuliva
quando nel tempio saliva.
La gente che nulla capiva
per poco non la divertiva.
Ma ora non sa darsi pace:
nessuno è più tanto audace
da viver mostrando il torace.













Piazza Saffi






Di te il ricordo ancora innaffi:
poke parole skrivi
dietro la kartolina
di Piazza Aurelio Saffi.


Non sai farti capace
k’io sia bronziphicato
come un guerriero
ke tace.

Ma si.
Hai phuso e deposto tu stessa
me fatto metallo rovente
nella phorma di njente
che sono
ke sj-amo
che phummo
(e phumo
noi ormai
non più saremo).









Piccolo paese



C’è un piccolo paese qui vicino
poco lontano dal Mare
ha strade chete e strade e torri
e chiese
e tutto è così minuscolo
che quasi
lo diresti abitato dalle Phate.

C’è un piccolo bar
con cartoline
e gente che gioca a scopone.
D’inverno
qui dentro i cacciatori si esaltano
e si akkalorano
rincorrendo lepri e phagiani
immaginari.


Questo paese così piccolo
vorrei girare ora con Te
nella nebbia e nella pioggia
di questo Aprile tedioso.


E’ un paese dove fanno stivali
come un tempo li portavano i butteri.
E c’è una torre
e una bella terrazza
sopra una valle
ora verde ora rossa
sempre piena di kanti pennuti.








Premilcore




strizza il cuore stasera
tornando a casa
e respirane il prophumo dei ricordi.
Rikordati di kwel pagliaccio
ke un anno pha ti sphiorò i kapelli
e voleva contarli
ma sapeva che eri kalva.

Al buio cercavate l’orekkino
sulla spiaggia deserta
skonphinata (!) di Romagna.
Dapprima con l’aiuto di una piccola
luce erotica (acquisto ignaro).

In pisseria al tavolo vicino
studenti parlavano d’esami
e tu:
“ah! … ma stavolta vengo io … a Natale … …”.
E ancora:
“se almeno tu abitassi + vicino! …”.

Non ti ho rivista +
ma Tu
stasera premilcore
e vola
Amore!










Questo tempo passa




Non vedi come questo tempo passa
e come tutto si perde nel nulla?
Lo vedo perché sempre + frequentemente
tagli la cima della siepe
e i rami del marasco.


Quest’anno ho colto solo sette nespole
e altre quattro sono rimaste in alto
nel caso arrivassi Tu.
Le hanno mangiate grossi coleotteri verdi.
Ho scritto “vendesi”
sulla Grande Casa dei Gatti:
forse ogni speranza
d’un improbabile ritorno all’inizio
scompare.

Il vento cercava di strappare
il grosso foglio
e pioveva forte.

Non vedi come questo tempo passa
e come tutto si perde nel nulla?














Rimasuglio






che resta adesso di quello che eri?
Lacrime e lutto, cenere e rimorsi,
ora che tutti ci siamo accorti
che solo i rettili sono sinceri.

E tremeranno poi le stelle verdi
si spaccherà il cuore del Pianeta
- il giorno che viene: ritmo
la notte che va: perfezione.

Fermati sulla porta, non uscire!!!
Qualcuno ha rubato le scale.



















Santa Lucia


Adesso a San Leo sarà caduta la neve.
Immagino bianca
sotto la Luna
la piccola Pieve.
Tu cosa fai? Ke leggi?
Non voglio saperlo.
Immaginarlo. Forse.
Phra poko è Natale.
E’ lontano il tempo di Ci-cale.
Il tarlo
del ricordo riprende a scavare.
Ma è lontano nel Mare
quel giorno lontano.
Non ti ho mai letto la mano?

Ma si. Però era bujo.
Ricordo solo
una mano uguale alla mia.
E’ notte.
Kome due anni pha.
Allora
si conphuse la pioggia e la phontana.
Avana
è la mia nuova agenda.
A djorni è phiera.
E’ Santa Lucia.
Ci saranno mille bankarelle
e Tu kamminerai
esitante
in kwel parapiglia
se comprare piadina
oppure
una nera conchiglia.







Sbrano










e quando mi sono rivelato
mi ha detto “sei simpatico”
però la Luna è tonda.
Il mare? Sa di umido
e cerco l’altra sponda”.

Spesso – Felicità –
sei sopra l’altra riva.
Idiota chi ci arriva.


























Sorrisi e sospiri







Nella nebbia che grigia s’addensa
non bastò un sorriso tardivo
coperto di neve futura
a sciogliere il groppo di sale
e di spuma marina.

La mattina
è sempre fatica levarsi.
La sera
tuffarsi nel buio non sempre sicuro.

Sul muro
ho appeso sorrisi
appena accennati
sopra sospiri improvvisi
e lontani.
Passati.














Stralunare I




Ancora non riesco a farmi capace.
Stanotte nel sogno ero di bronzo.
Ero uno
dei Bronzi di Riace.
Nella Notte di Santa Lucia
ero immerso in curiosi miscugli:
ero a bagnomaria.



Mi toglievano a Kroste
il tempo passato
il tempo perduto nel mare
a nuotare
a remare.



Il mio Tempo Passato cadeva a brandelli:
ero uno
dei due Giganti Gemelli.
Ed avevo perduto lo scudo
ed avevo smarrita la lancia.
A bagno negli acidi avevo
persino un po’ mal di pancia.
Intorno a me discutevano
a frotte
artisti. E la notte
era come di giorno:
c’era sempre Kwalk Uno Di Torno.








Un tempo eravamo a migliaia.
Ma adesso io proprio non so
più pharmi kapace.
Come due sassolini di ghiaia
scampati al massacro
immobili e stupidi a Riace
ci guardano muti e un po’ tristi
clienti e turisti
studiosi dai vetri appannati
studenti
e dottori incantati.
Arrivano
un po’ stralunati
persino ministri.


Li chiamano qui ‘deputati’
gli odierni ripritanizzati.


Un destino davvero rapace
essere un Bronzo di Riace
a me poco piace.


Mi dispiace
così senza scudo né spada
a ciascuno far viso
di pace.








Speranza




Credo che prima o poi
e me lo lego al dito
(io) fonderò un Partito!
Piccolo come il Mondo
e grande come un granello
di sabbia sottile. Un gioiello.
Un monile.
Il suo simbolo?
Un orecchino
leggero e fino
di oro zecchino
come quello perduto nel Mare
senza nemmeno nuotare
né bere o affogare.
Un Partito con crisi e con scismi
in cui sia sempre Natale
e mai Carnevale.
Sarà un Partito spartito
in confetti.


Qualcosa di nuovo
coperto di stucco
e vecchio direi
come il kukko.
Un Partito di Pace
di bronzo
ma non un partito di Riace.
Un Partito senza dissensi.
Senza parenti.







Con pochi denti
e senza consensi di assenti.
Un partito pieno di okkj
ermetico e chiuso ai finocchi
ai fessi ed ai pederasti.
Un gruppo senza contrasti.
Un Partito senza canestri
per gli extraterrestri.


Il suo stemma sarà una stella.
Ma non coperta di sangue.
Un po’ forse simile a quella
che i Re detti Magi
seguirono lemme e rilemme
fino alla Santa Betlemme.

Una stella kaduta.
Finita.
Svanita.
Perduta.

Aspetto Kwal Kuno
da lontano
che voglia darmi una mano.
Non aspetto consigli e lanute creature sperdute
e nemmeno conigli o fameliche lupe.

Aspetto qualcuno
spero
Ti rassomigli.





Trinità 15








Nelle tue bianche buste colme
di conchiglie e di nastri musicali
e nei tuoi occhi come di uno scosceso
animale in agguato
c’è un arcaico passato.

Qualcuno si lamenta
per lettere difficili da recapitare
e lassù al Nord
organizzano premi e premi
per gli analfabeti eredi di Saffo.

Al nespolo del Giappone
ho messo due rami a spacco
di ciliegio marasco.

Stanotte, in sogno, ti ho parlato.
Pochi minuti, alla stazione,
di passaggio. Non so dove.
Dalle parti tue.
Svegliandomi, ero offeso.
Perché Tu non mi hai chiesto
di restare.

E intanto gira l’orologio.
Di questo passo, Agata,
finisco in Paradiso.







Un mare di piccioni affamati



Oggi a Piazza del Campo
C’eravamo proprio tutti.
Due bambini mi facevano volare
Addosso un mare
Di piccioni.

“Quali colombe dal desio chiamate”
gli amanti ci restano fedeli
come cani accucciati
a un nostro fischio
tutti rispondono.
Ma c’è qualcuno
Un bambino non capisce il gioco
Che non risponde all’appello.

Questo mare di fedeltà molteplici
Che ci tiene avvinti
Sulla strada dell’Appetito.

A Lui siamo fedeli.
Questo mare di legami abnormi
Che ci rende così liberi e servi.
Quest’oceano di frasi
Arbitrarie che avvinghiano
Le nostre così sante menzogne.

E tutto
È solamente
Un volo di piccioni affamati.







Vattene




tutto è pronto per la Tua Partenza.
Vattene. Non voglio più parlare con Te.
Che io non Ti riveda mai più.
Non voglio + dirti
ke passo le Ore a parlare
con i tuoi phantasmi
né che ti detesto
se riesci a respirare
a leggere
a godere Altro
dal tormento del mio pensiero.

Vattene.
Tutto è stato preparato
per questo Addio Astioso.
Anche la mia blesa dolcezza.
Ho bisogno di saperti Perduto
e di rimpiangerti per sempre
di passare i miei minuti
ad aspettarti
Amore.

Per kwesto vattene.
Tutto è pronto per la mia partenza
e per questa inutile disperazione.








Verso l’Universo






l’Uomo si chiuse nel suo Uovo Cosmico
perso nel Mare Galattico della Tranquillità
dopo che la sua Ombra fuggì
verso l’altra sponda – senza più misteri.

Nulla e nessuno più avrebbero infranto
quel suo solare torpore d’anima
nemmeno con rikiami d’amore.

Mise un ultimo kammello marrone
sopra una poesia scritta in Latino
con parole greche e anglosassoni
e partì sul suo vascello d’avorio.

Il dio ritornò sul Parnaso
un dio piccolo e vero ed amabile
solamente se assente e lontano.

Spedì la poesia alla sua ultima Musa
che nemmeno lo riconobbe
e voleva condurlo nel mondo dei Poeti:
ma lui di là proveniva.

E ne conosceva l’essenza:
il Nulla che urge alla Forma.
Lasciò i suoi allori a Dioniso
e tenne per sé il Nulla Puro Assoluto.
Eterno e Lontano: il Futuro.



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